I 150 ANNI DI MANN abissi da romanzo

È sempre sbagliato, quando si ricompone la storia di una personalità, restringerla a una faccia sola oppure a un unico motivo, perché si corre il rischio di semplificarla o perfino di fraintenderla senza coglierne la dialettica reale, che è fatta principalmente di deviazioni oppure di ritorni, di parentesi e di riprese.

Una grande famiglia borghese piena
di chiaroscuri
Il figlio Klaus erediterà
i suoi tormenti portandoli
all’estremo

“Disperatamente tedesco”

Il che è tanto più vero se la personalità in discorso, dal punto di vista artistico, si situa cronologicamente nella prima metà del “secolo breve”, vale a dire nei cinquant’anni, per riprendere una penetrante definizione di Gottfried Benn, che hanno visto «la liquidazione della verità e il consolidamento dello stile». Parlando di una delle grandi icone della cultura del Novecento, che ha inciso a fondo sul modo di circoscrivere e interpretare la realtà, è quindi lecito utilizzare l’ossimoro “famoso e sconosciuto”.

Perché la vicenda umana e artistica di Thomas Mann e la sua esistenza “disperatamente tedesca” (secondo la sua stessa definizione) continuano a costituire un mistero piuttosto impenetrabile. In occasione di un anniversario tondo come il secolo e mezzo dalla nascita, vale la pena di tentare un approccio almeno parzialmente diverso, poco canonico e poco convenzionale, alla memoria e all’eredità spirituale dell’autore de “I Buddenbrook” e “La montagna magica”. Uno strumento molto utile in questo senso è rappresentato da “Il Mago”, una biografia romanzata che lo scrittore irlandese Colm Tóibín ha dedicato non solo a babbo Thomas detto “Il Mago” (i figli e perfino la moglie Katja gli si rivolgevano in questo modo), ma anche e soprattutto alla sua famiglia.

Con la falsa modestia che si può perdonare soltanto ai grandissimi, unita a uno sfuggente ed elusivo “understatement” che in sostanza era una studiata strategia difensiva più che un abito morale, non mancando inoltre di aggiungere che la sua opera si era già conclusa coi “Buddenbrook” e tutto il resto era da considerarsi nient’altro che una rifinitura del capolavoro giovanile, Thomas Mann si era definito epigono, testimone e non protagonista dell’idea tipicamente tedesca della “Kultur” intesa nei termini di quella peculiare “civiltà” che lo stesso Mann aveva recepito dalla grande cultura dell’Ottocento, da Goethe a Nietzsche, passando per Schopenhauer e Wagner.

Niente di più falso, o comunque opinabile: il “Mago” Thomas Mann, insieme ai due protagonisti del classicismo di Weimar, Goethe e Schiller, è infatti lo scrittore tedesco per eccellenza, perché del germanesimo nelle sue varie forme e declinazioni ha assorbito l’anima, restituendola in altissime e spesso “disperate” figurazioni artistiche, mentre la famiglia Mann è senza alcun dubbio la famiglia “disperatamente” tedesca per eccellenza. Aveva davvero ragione il figlio ribelle Klaus quando parlò dei Mann, non senza un certo sarcasmo, come di una vera e propria “amazing family”: «Che famiglia straordinaria è la nostra! In futuro si scriveranno libri su di noi, e non solo su ciascuno di noi».

L’autore non è l’opera

“Il Mago” è precisamente uno di questi “libri su di noi, e non solo su ciascuno di noi”. Sicuramente è il meno accademico nell’accezione deteriore del termine, perché privo di tecnicismi e tutto orchestrato su una profonda empatia e una schietta partecipazione umana. La biografia romanzata di Tóibín, che si basa su riferimenti storici e biografici molto accurati, precisi e fedeli, limitando alla fantasia e reinvenzione dell’autore i soli dialoghi e taluni scenari («faccio soffermare Mann in spazi dove mi sono soffermato io, ho ancorato la mia scrittura al ricordo tangibile», ha spiegato lo stesso Tóibín nella premessa al volume, soprattutto in relazione allo scenario e alle suggestioni de “La morte a Venezia”), costituisce insomma il perfetto compimento della profezia di Klaus.

Famosissimo come scrittore ma sostanzialmente sconosciuto come uomo, Thomas Mann è stato per così dire il punto di convergenza o di fuga di numerose disgrazie, tragedie e incomprensioni familiari, che hanno avuto pesanti ricadute sulla sua opera e sono state solo parzialmente risolte nella dimensione quasi lustrale della reinvenzione/trasfigurazione letteraria. Basti pensare alla vicenda del figlio minore Michael, musicista di discreto talento, morto suicida nel 1977 dopo la pubblicazione postuma dei diari nei quali il padre – che pure ha scritto pagine magnifiche sul “disordine e dolore precoce” dell’infanzia – aveva messo nero su bianco la propria mancanza di amore e perfino di affetto nei suoi confronti. Ma si potrebbe parlare anche di Klaus ed Erika, i due più dotati letterariamente, limitati (annientati, nel caso di Klaus, morto suicida a soli 43 anni) dall’ingombrante quanto soffocante presenza del padre. Per analogia, il pensiero corre inevitabilmente all’inqualificabile comportamento di Goethe nei confronti del figlio August, a dimostrazione del fatto che l’autore è l’opera, ma lo scrittore – Mann che inventa lo straziante personaggio del piccolo Nepomuk nel “Doctor Faustus”, Goethe che nel primo “Faust” inventa la meravigliosa scena di Gretchen nel carcere – non è mai l’uomo. Nella migliore delle ipotesi, ne è l’immagine stilizzata, la maschera, il travisamento, perfino il trucco.

Il mago, per sua natura, è anche un mistificatore, ha fatto notare giustamente Tóibín, sottolineando la voluta ambivalenza del titolo e fornendo un’interessante chiave di lettura. “Il Mago” Thomas Mann che si profila soprattutto nella prima parte del romanzo, fino all’avvento del nazismo e alla fuga dalla Germania, è il cosiddetto Mann “ufficiale” o della “decadenza”, un tema che nelle sue opere torna in numerose variazioni e sostanzia la sua intera produzione fino al tardo e larvatamente autobiografico “Felix Krull”. Il Mann della “decadenza” è il rappresentante di una civiltà che si identificava totalmente con la borghesia e valori universalmente riconosciuti quali il primato dell’etica e dell’ordine, non da ultimo con la capacità di dominare i demoni dell’irrazionale e dell’informe. La sensibilità anglosassone di Tóibín coglie e restituisce un simile aspetto in maniera molto convincente.

Il libro non scritto

Ma c’è anche un Mann poco ufficiale e molto oscuro, venuto alla luce dopo la pubblicazione dei diari. Tóibín gli dedica la seconda parte del romanzo, individuando la cifra più autentica della sua vita e della sua opera nel disperato tentativo di conciliare il borghese e l’artista, la repressione apollinea e l’abbandono dionisiaco alla dissoluzione, le istanze che sostanziano la vita ma la irrigidiscono e quelle che la liberano ma insieme la disgregano. Nei diari, infatti, il grande scrittore elusivo, equilibrato ed ironico, di un quasi irritante “aplomb” anche nell’accostarsi alla patologia e alla tragedia (la sua gelida reazione al suicidio del figlio Klaus – «Non avrebbe dovuto fare una cosa simile a sua madre e sua sorella…» – è semplicemente sconcertante, ai limiti del disumano), si rivela invece un uomo fisicamente e psichicamente tormentato, che parla per intere pagine della vertiginosa “simpatia per l’abisso” (poi ereditata da Klaus, che l’ha portata alle estreme e fatali conseguenze) e infine si lamenta in maniera quasi infantile per i dolori fisici e le persistenti crisi depressive, fatte di «lacrime e angosce» e tenute rigorosamente nascoste. Sotto una superficie apparentemente priva di increspature, l’ultimo grande borghese tedesco e l’ultima grande famiglia borghese tedesca si rivelano insomma pieni di chiaroscuri, sfuggenti e in ultima analisi inafferrabili.

Per tutti questi motivi, “Il Mago” è un romanzo su Thomas Mann che si legge come un romanzo di Thomas Mann, quel romanzo che lo stesso Mann, per convenienza e in nome del cosiddetto “ethos della forma”, o perché il tempo non sarebbe mai stato maturo, ha confinato nei diari. Forse non è il romanzo più bello (il pur bravo Colm Tóibín, narratore di vaglia, non è ovviamente Thomas Mann), ma senza dubbio è il più onesto, perché la “verità” non viene mai liquidata a favore dello “stile” e della cosiddetta “prestazione”. Un romanzo intriso di tristezza e malinconia, pieno di abissi e voragini, di “disordine e “dolore” più o meno “precoce”, quindi drammaticamente umano.

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