Remigrare neologismo manipolato dai politici

Sono utili, preliminarmente, alcune annotazioni terminologiche. Migrante è una persona che si sposta, temporaneamente o definitivamente, dal proprio Paese di origine verso un altro Paese. Le motivazioni, che inducono una persona o un gruppo di persone a fare tale scelta, sono economiche, politiche, ambientali e sociali, addossandosene, coscientemente o incoscientemente, le pesantezze insite in tale scelta.

Uno Stato da solo non può farsi carico
dei problemi migratori, tuttavia
nulla giustifica
il respingimento alle frontiere
dei migranti

L’emigrazione è un fenomeno complesso e multidimensionale. Ne sono interessati sia singoli individui che gruppi e collettività. Si pensi, ad esempio, alle grandi migrazioni verso l’Europa avutesi in passato. L’emigrazione può avere effetti significativi sia nelle società di partenza che in quelle di arrivo. Il termine migrante fu coniato nel XIX secolo: un periodo che è stato interessato da grandi movimenti migratori dall’Europa verso le Americhe e, poi, progressivamente, diffusisi in tutto il mondo. Si legge tale termine per la prima volta 1876 in un articolo pubblicato sulla rivista “L’Emigrante”. È una rivista che si occupa di temi legati all’emigrazione.

Remigrazione è un termine derivante dal verbo latino remigrare: tornare in patria, ritornare nel proprio luogo di origine. Giordano Bruno lo menziona in “Spaccio della bestia trionfante” (Londra,1584). Viene usato a livello accademico, in Inghilterra, nel 1620 per descrivere il ritorno in massa verso i propri luoghi di origine. Remigrare, fino in tempi recentissimi, è stato utilizzato solo in ambito accademico e tra gli esperti di migrazione tedeschi e olandesi per indicare il ritorno volontario di una persona migrante nel proprio Paese di origine; oppure per indicare una seconda migrazione dopo un primo spostamento (R. King, K. Kuschminder, “Handbook of Return Migration”, Edwar Flgar, 2022).

Remigrazione è stato associato, in passato, anche al trasferimento nel nuovo stato di Israele degli Ebrei provenienti da qualsiasi Paese del mondo avutesi nella prima metà del Novecento.

Remigrazione (e remigrante) è apparso di recente nei media e nel dibattito politico-sociale (2024). Si è aggiunto a migrazione il prefisso “re”. Esso segnala “il ripetersi di un’azione in senso contrario”. È un neologismo costruito attraverso l’italianizza-zione della parola inglese “remigration”: migrazione all’indietro. Esso ha, però, assunto, in Italia e anche altrove, il significato di “ritorno forzato” nella propria patria di persone immigrate in modo irregolare, non integrate o non integrabili, non assimilabili, indesiderate o temporaneamente accolte, stante problemi e conflitti vigenti nei loro Paesi di origine. La parola remigrazione non è, però, ancora stata inserita nei dizionari della lingua italiana.

Statistiche e diritti

Gli ingressi irregolari nell’Unione europea sono stati nel 2024 239mila con un calo del 38 per cento rispetto al 2023 (Fonte. Frontex, 2024).

Il fatto che i migranti siano titolari dei diritti umani, sanciti dalla Carta universale (G. Giumelli, “Garantire i diritti umani. Una meta ancora lontana”, il melangolo, Genova 2020), non dovrebbe essere in alcun modo oggetto di controversie. I migranti sono esseri umani, temporaneamente o permanentemente, fuori dal proprio Paese. Ciò non sempre succede. Il diritto di emigrare pone una questione: apertura o chiusura dei confini? L’apertura dei confini non implica necessariamente l’esistenza di un diritto a emigrare e viceversa. Essa vi dà, però, forza, pur correttamente regolato. Si pone come barriera nei confronti della remigrazione “forzata”, che, invece, tende a sfuggirvi. Ci si deve chiedere in nome di quali principi l’attraversamento dei confini debba essere sottoposto a misure restrittive, se esistano eccezioni e in quali casi e se tali restrizioni siano pratiche (e sottostanti principi) moralmente giustificabili.

Ragioni contrapposte

Due sono i diritti riconosciuti a ogni Stato: sovranità territoriale e autodeterminazione. Vi si richiamano gli Stati quando rivendicano il potere di decidere chi fare entrare e chi no, di remigrare e di decidere la loro composizione (etnia, religione, cultura). Lo Stato deve essere libero di esercitare tali diritti, tuttavia forti sono le difficoltà in cui lo stesso si imbatte quando vuole fissare regole chiare e condivise a guida delle politiche di accoglienza. Forti sono anche le difficoltà si frappongono quando si vuole sostenere che i doveri di uno Stato nei confronti dei suoi membri devono valere anche verso gli stranieri.

Lo Stato dispone di spazi di vita e di risorse limitati, per cui non può accogliere un numero illimitato di persone né dividere le risorse per molte più persone rispetto a quelle ai cui bisogni è in grado di dare risposte.

Si invocano limitazione degli ingressi e remigrazione a difesa della cultura di una comunità. È una difesa - si sostiene - possibile solo attraverso il controllo degli accessi e la remigrazione. Si difende in tal modo benessere, cultura e libertà di una comunità. Tali motivazioni possono essere considerate legittime e valide. Evidenziano, però, la loro debolezza quando vengono poste a confronto con le motivazioni con cui si chiede l’apertura dei confini almeno a una parte della popolazione di altri Stati, sia pure con opportune e corrette limitazioni. Ci si imbatte in un conflitto di interessi. I diritti alla difesa della propria comunità, identità, cultura e territorio si mostrano “deboli” se vengono posti a confronto con i diritti di chi fugge da persecuzioni, fame e guerre e se ne analizzano le implicazioni morali.

Etica e sovranità

Uno Stato può, legittimamente, prendere decisioni in nome della sovranità nazionale, tuttavia queste possono essere moralmente sbagliate. La sovranità nazionale non può, infatti, legittimare ogni norma. La legge sui diritti umani, firmata da gran parte degli Stati, si propone di limitarne l’arbitrio anche rispetto agli accessi dei migranti sul proprio territorio e alla remigrazione forzata. È vero che uno Stato da solo non può farsi carico dei problemi migratori, tuttavia nulla può giustificare il respingimento alle frontiere dei migranti o la remigrazione forzata. Una riflessione morale sulle leggi migratorie in vigore dovrebbe indurre a una loro revisione significativa e impedire di sostenere la chiusura delle frontiere e la remigrazione forzata. Ne sono colpite persone che fuggono o sono fuggite dal proprio Paese per necessità.

Remigrazione porta l’attenzione sulla condivisione di spazi di vita e risorse economico-finanziarie. La crisi etica ed economica ha, drammaticamente, reso evidente riduzioni e carenze di risorse a disposizione della popolazione e, quindi, i conflitti indotti da tale carenza e dalla loro ineguale redistribuzione.

Si potrebbe sostenere, utopisticamente, che basti riconoscere l’esistenza di una sorta di proprietà collettiva della Terra e, quindi, reclamare una condivisione degli spazi di vita e delle risorse: gestire la migrazione sulla base di un loro uso proporzionale. Ciò può accordarsi con la necessità di gestire i flussi migratori regolando i doveri generali imposti dai diritti umani e, nello specifico, i doveri dei Paesi di accogliere migranti e di farli vivere dignitosamente. Ciò è possibile sulla base delle capacità oggettive di ciascun Paese in termini di spazi di vita e di risorse.

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