Ci sono vicende umane dolorose quando non tragiche che non bucano il silenzio dei media come meriterebbero, dell’opinione pubblica e della politica. Ma ciò che non si vede o che si vede poco, esiste comunque.
È il caso del gorgo nel quale è finito Alberto Trentini, cooperante di 46 anni, veneziano, laureato in storia a Ca’ Foscari, con specializzazioni in assistenza umanitaria e ingegneria sanitaria: nell’ottobre 2024 si era recato in missione in Venezuela per conto dell’organizzazione non governativa “Humanity & Inclusion”, è stato arrestato il 15 novembre successivo senza alcun capo di accusa. Da 302 giorni è detenuto in condizioni durissime in un carcere di Caracas. Privato anche dei medicinali necessari contro l’ipertensione della quale è affetto, ha avuto solo due brevi contatti telefonici con la madre, il 12 maggio e il 22 luglio scorsi. Non gli è stata concessa nemmeno la possibilità di ricevere la visita del console italiano.
Proprio la mamma, Armanda, vincendo la riservatezza con la forza della disperazione, aiutata da Alessandra Ballerini, avvocato della famiglia di Giulio Regeni e quindi esperta di giovani al servizio del bene puniti dai regimi, sta conducendo una battaglia del cuore per avere notizie del figlio e ottenerne la liberazione, andando in tv quando è stata invitata, raramente. O di recente al Festival del cinema di Venezia, dove ha detto: «Stiamo vivendo un dolore atroce che cresce ogni giorno. Mio figlio è stato abbandonato dal suo Paese».
La vicenda non ha il carattere di urgenza riservato a nostri connazionali giornalisti incarcerati, quando si sollevano campagne sulla tutela della libertà di informazione, o di dissidenti politici in cella che hanno al seguito movimenti. La vicenda dolorosa e profondamente ingiusta del cooperante veneziano ha però il sostegno di cittadini: oltre duemila stanno partecipando al digiuno a staffetta per Alberto, 100mila firme sono state raccolte, oltre che per la sua scarcerazione, per garantirgli assistenza legale e medica; la pagina Facebook a lui riservata aggiorna le rarissime notizie e ospita il “muro della speranza”, con la testimonianza di chi si fa fotografare con il manifesto “Trentini libero”. Il cooperante detenuto rappresenta il mondo non valorizzato degli italiani che operano in zone di conflitti e nelle terre devastate da povertà e disastri ambientali, dove cuciono le ferite che ci inquietano quando diventano guerre gravi, come nella Striscia di Gaza e in Ucraina. Sono nostri connazionali che veicolano nei continenti l’immagine di un’Italia generosa ma anche portatori di esperienze e conoscenze con le quali la politica dovrebbe essere in connessione costante, come invece non ha fatto con il Piano Mattei per lo sviluppo dell’Africa, nel quale non hanno avuto voce le organizzazioni non governative che da anni operano negli Stati al di là del Mediterraneo meridionale.
Alberto Trentini ha lavorato in diversi Paesi, dall’Etiopia al Nepal al Perù, sempre con lo stesso spirito: «È impagabile - ha detto - dare qualcosa a questa gente, che ha poco e ti rende sempre un sorriso». La madre ha scritto alla premier Giorgia Meloni «perché volevo guardarla negli occhi - ha dichiarato -, perché capisse quanto dolore c’è in questa mia richiesta d’aiuto. A volte penso: se fosse figlio loro, cosa farebbero?».
Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha espresso « massima comprensione» facendo presente che «ce ne sono tanti altri di prigionieri». Da quando è stato rieletto Maduro, nel luglio scorso, Caracas detiene 15 italiani ma Trentini, volto mite e gentile, è l’unico in carcere senza capo d’imputazione e per lui potrebbe profilarsi il peggiore, l’accusa tipica, falsa e inchiodante dei regimi: terrorismo e cospirazione. Il ministero degli Esteri venezuelano ha precisato che «c’è un’azione legale che deve seguire il suo corso». Resta quella domanda della mamma che vale per tutti, per ogni vittima di gravi ingiustizie: se fosse nostro figlio?
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