Quello sul paracetamolo in gravidanza ed eventuale rischio neuroevolutivo è un dibattito scientifico in corso da tempo a livello internazionale. Negli ultimi giorni il tema è tornato al centro dell’attenzione pubblica, rilanciato da nuove prese di posizione politiche. Ciò che conta davvero, al di là degli schieramenti, sono però le evidenze scientifiche.
A riaccendere i riflettori è stata la pubblicazione, lo scorso agosto, di una review sulla rivista Environmental Health. Lo studio, intitolato Evaluation of the evidence on acetaminophen use and neurodevelopmental disorders using the Navigation Guide methodology, è stato condotto da un gruppo di epidemiologi statunitensi di prestigiose università: Harward University, Ucla - University of California Los Angeles, Icahn School of Medicine at Mount Sinai (New York), University of Massachusetts Lowell.
Gli autori hanno rilevato “prove coerenti con un’associazione tra l’esposizione al paracetamolo in gravidanza e la comparsa di disturbi dello sviluppo neurologico (Ndd) nei figli, tra cui autismo (Asd) e deficit di attenzione/iperattività (Adha)”. Allo stesso tempo, i ricercatori hanno precisato che “i limiti dell’osservazione non consentono di stabilire una causalità definitiva”. Da qui l’invito alla cautela: “La febbre e il dolore materni non trattati comportano rischi quali difetti del tubo neurale e parto prematuro, rendendo necessario un approccio equilibrato”.
Allargando lo sguardo, In letteratura esistono già almeno sei studi epidemiologici solidi che hanno segnalato un aumento del rischio di disturbi dello spettro autistico del 15-20% legato all’assunzione del farmaco. Tuttavia, come per molti altri fattori di rischio in gravidanza, il nesso non è semplice da dimostrare: l’autismo è una condizione multifattoriale e nessun singolo elemento sembra sufficiente a spiegarne l’origine.
Uno dei principali problemi è la presenza di fattori di confondimento. Il paracetamolo si può acquistare senza ricetta, perciò gran parte dell’uso non compare nelle banche date mediche: per le proprie indagini i ricercatori devono affidarsi a questionari e autodichiarazioni delle pazienti, che non sempre sono precisi. Inoltre, spesso le donne che assumono paracetamolo in gravidanza lo fanno perché hanno avuto febbre, infezioni o altre condizioni di salute: è difficile distinguere se i rischi osservati dipendano dal farmaco o dalla malattia che ne ha motivato l’uso.
Questo meccanismo è noto come confondibilità per indicazione, e rappresenta una delle insidie più comuni negli studi osservazionali. In particolare nella farmacoepidemiologia, dove il motivo della prescrizione di un trattamento (l’indicazione) è correlato al risultato oggetto di studio. Qualsiasi apparente legame tra il paracetamolo e l’autismo potrebbe quindi essere spiegato da questi altri fattori di salute piuttosto che dal farmaco stesso.
Sebbene gli scienziati cerchino di correggere tali fattori di confondimento nei loro studi, “le correzioni statistiche sono raramente sufficienti”, avverte l’epidemiologo Viktor Ahlqvist del Karolinska Institute di Stoccolma, co-autore di quello che è probabilmente il più ampio studio sull’eventuale relazione tra uso di paracetamolo in gravidanza e autismo.
Non a caso, i risultati delle ricerche condotte finora su questo tema sono stati contrastanti. In un altro studio, peraltro, il team di Ahlqvist ha anche utilizzato un approccio originale: confrontare coppie di fratelli nati dalla stessa madre, di cui solo uno era stato esposto al paracetamolo durante la gravidanza. Questo in considerazione del fatto che i fratelli condividono metà del loro genoma, un’educazione simile e lo stesso background sanitario della madre, quindi qualsiasi differenza rilevata rispetto all’insorgenza di disturbi dello spettro autistico avrebbe avuto maggiore probabilità di avere un legame con l’uso del farmaco.
In questo caso i ricercatori non hanno trovato differenze nei tassi di autismo, suggerendo che i collegamenti riscontrati in altri studi potrebbero essere spiegati proprio dai suddetti fattori di confondimento. In conclusione, il quadro che emerge è quindi complesso: esistono indizi di associazione, ma non prove di causalità. La sfida per la ricerca sarà chiarire meglio il rapporto rischio-beneficio.
Come comportarsi allora in questa fase? Gli esperti concordano su un punto: non va demonizzato un farmaco che, se usato correttamente, è considerato sicuro e largamente prescritto. Allo stesso tempo, ogni utilizzo in gravidanza dovrebbe avvenire solo quando realmente necessario e sempre sotto controllo medico. L’invito, dunque, è alla prudenza informata: evitare automedicazioni, non banalizzare l’uso di paracetamolo e, in caso di dubbi, rivolgersi al proprio medico. In attesa di studi più definitivi, la via da seguire resta quella dell’equilibrio.
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