
Anziché lagnarsi del fuori onda sfuggito a Giorgia Meloni durante il vertice di Washington («Io non voglio mai parlare con la stampa italiana»), noi giornalisti dovremmo appuntarcelo come una medaglia. Se un politico parla male degli operatori dell’informazione, di solito significa che questi stanno facendo un ottimo lavoro: quello di cane da guardia del potere.
Certo, diverso il discorso per chi attacca i rappresentanti del popolo per partito preso, un genere di giornalismo che purtroppo sta proliferando. Oggi, salvo eccezioni comunque ancora numerose, i giornali si possono dividere in due categorie: quelli che criticano a prescindere il governo in carica e quelli che lo sostengono sempre e comunque, senza se e senza ma, accanendosi, di conseguenza contro l’opposizione. Un metodo che è stato applicato anche per interpretare il vertice in Alaska fra Trump e Putin: i fogli pro presidente Usa a prescindere, hanno parlato di un trionfo di quest’ultimo, per i detrattori invece è stata un’umiliazione ricevuta da parte del capo del Cremlino. La verità come si è visto poi e come accade spesso era nel mezzo: pochi l’hanno voluta cogliere subito.
Una volta era diverso: c’erano i giornali di partito (L’Unità, l’Avanti, Il Popolo ecc.) che esprimevano le posizioni dei loro editori-politici; poi i “giornali-partito” come la Repubblica di Eugenio Scalfari o Il Giornale di Indro Montanelli, che propugnavano linee politiche frutto delle idee dei loro direttori. Gli altri erano “neutri”: di certo c’era più onestà e chiarezza.
Tornando all’assunto di partenza, è sbagliato attaccare le parole della presidente del Consiglio con le solite accuse di fascismo. Le incursioni contro la stampa, infatti, appartengono tanto alla destra quanto alla sinistra.
Massimo D’Alema, uno che la toccava sempre piano, ebbe modo di affermare che «lasciare i giornali in edicola sarebbe un segno di civiltà». Beppe Grillo gratificò la categoria definendola «prostitute intellettuali». Romano Prodi, di recente, ha strattonato per i capelli una giornalista dopo una domanda sgradita.
Va detto che le polemiche e le azioni dirette sono una caratteristica della cosiddetta Seconda Repubblica, nata sulle ceneri dei partiti tradizionali. I politici della Prima erano più “gommosi” nei confronti delle critiche: difficilmente esternavano, al massimo si lamentavano con i direttori. Winston Churchill faceva di meglio, ignorando i giornalisti per rivolgersi direttamente agli editori. Altre epoche, altri stili.
Peraltro, se i giornalisti non sanno farsi rispettare è soprattutto colpa loro. E qui siamo consapevoli di esporre il petto. Ma, lasciando da parte la nostra “bottega”, è bene ricordare certe interviste in ginocchio a leader politici, domande memorabili come quella rivolta proprio a Giorgia Meloni sulle formiche da calpestare o meno (certo uno dei principali problemi del nostro Paese), o gli applausi con cui fu accolto Mario Draghi, all’epoca premier e amatissimo dalla categoria degli operatori dell’informazione. durante una conferenza stampa di fine anno.
Insomma, sarebbe il caso di resettare i rapporti tra giornali e politica, nell’interesse di tutti. I primi guadagnerebbero credibilità e, forse, anche qualche copia in più in edicola (la fuga dei lettori non è solo e non del tutto attribuibile alla concorrenza gratuita dell’informazione digitale); i secondi una maggiore dignità. Perché non bisogna pensare che attaccare i giornalisti porti voti: primo, proprio a causa della caduta di autorevolezza della categoria; secondo, perché in questo quadro tutto appare scontato e le questioni rimangono confinate nello schema di contrapposizione politica.
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