I miei auguri scomodi a un mondo disumano

Vorrei fare auguri scomodi. Di quelli che non fanno venir voglia di rispondere con un: “ricambio di cuore”. Lo faccio perché la festa del Natale di Gesù è tutt’altro che la festa dell’“oggi siamo tutti più buoni (domani si vedrà)”. È la festa di una follia, quella di Dio che viene ad abitare la terra, che s’incarna in uomo, che si fa come noi. A pensarci bene nasce spontanea la domanda: “Cosa gli è venuto in mente?” o: “Chi glielo ha fatto fare?”. A pensarci è un paradosso che Dio voglia fare l’uomo quando il mondo è pieno di uomini che si sentono dio; che voglia fare l’uomo quando l’uomo sta disimparando l’arte di esserlo. C’è un’umanità che va a pezzi, oggi come allora; ci stiamo sbranando tra noi: non solo in guerra ma anche in ufficio, in casa, nel traffico. Al mattino usciamo di casa col coltello tra i denti. Stiamo perdendo umanità. E cosa fa Dio? Si fa uomo per noi che uomini non vogliamo essere. Ma così ci dice che siamo ancora degni della sua cura e del suo amore; che non siamo condannati alla disperazione; che vale ancora la pena rimettere mano al mondo per farlo tornare ad essere meraviglioso; che vale la pena mettere mano all’uomo perché ritrovi la sua dignità (e rispetti quella degli altri).

E allora faccio auguri scomodi perché contemplare un Dio che si fa bambino non può che mettere in discussione la logica di carriera e di potere, la regola che il più forte vince sempre, che il ricco si può curare e il povero no, che alcuni (molti, per fortuna) possono permettersi una casa, magari modesta, mentre altri, troppi, possono permettersi solo l’angolo di una strada o quello di un parcheggio sotterraneo.

Un Dio che piange come piangono i bambini e ha bisogno di tutto, di un po’ di latte e di un pannolino, di una coperta e di un cuscino, è un Dio che grida che la vita è buona anche quando non è efficiente e prestante, lo è anche quando è quella di un anziano che ha bisogno di cure e di un ragazzo che ha bisogno di affetti, educazione, scuola, futuro. C’è una logica, dice Dio, che è quella del dono: è una logica che non rende economicamente ma dà dignità alla persona. Ritrovare questa logica è l’augurio del Natale.

E contemplare, nella notte di Betlemme, il via vai di angeli e di pastori, il sopraggiungere dei Magi e anche, purtroppo, dei soldati di Erode (i soldati, in ogni storia, non mancano mai), chiede di accorgersi che persino Dio, nel farsi uomo, ha bisogno di compagnia. Vuole gente attorno a sé. Ma quante solitudini spezzano le trame della vita della nostra città? Fa male sentir dire da una persona anziana che passa giornate intere senza scambiar parola con qualcuno. Fa pensare che una famiglia confidi di essere rimasta senza vicini di casa perché gli appartamenti intorno sono diventati case vacanza. E come non ci scuote la coscienza il dramma disperato di chi giunge a togliersi la vita perché non ce la più a vivere? E quella solitudine dei giovani che si trasforma in violenze, dipendenze e trasgressioni cosa ci sta gridando? Cosa ci sta chiedendo? È solo questione di sicurezza o segno dei tempi che cambiano? Mentre angeli, pastori e Magi s’incamminano verso Betlemme per stare accanto a quella famiglia e a quel bambino, noi dove siamo? Dove stiamo andando? Scambiarci gli auguri significa promettere: incamminiamoci insieme, non lasciamo soli quei due genitori e quel figlio. Non lasciamo soli nessuno.

E poi un po’ di silenzio, per favore. Nel troppo di questi giorni di Natale (troppo di tutto) ci sia un angolo di quiete dentro di noi, un pertugio per lo spirito, perché il Dio innamorato di questa umanità un po’ acciaccata, possa accovacciarsi e stare lì. Buon Natale!

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