
Ogni volta ne arriva uno nuovo, tutto tronfio ed egagro, tutto garrulo e pavoneggiante, che sembra pronto a spaccare il mondo. Poi, però, ti racconta la solita storiella, come tutti gli altri.
Adesso cambia tutto, adesso ci pensiamo noi, adesso la piantiamo di perdere tempo perché questa è la terra del fare, del lavoro, dell’impresa e dell’intrapresa, caro lei, non siamo mica nell’Italia nel tacco o nel sud del mondo o nell’emisfero dei paesi sottosviluppati e basta scartoffie, basta burocrazia, basta il dottore è fuori stanza, basta qui è tutto un magna magna, basta il primo che si alza comanda, signora mia, adesso da noi vige l’efficienza, l’intraprendenza, la trasparenza, la coerenza e bla bla bla. E noi, che siamo davvero dei poveretti, stiamo pure ad ascoltarli, questi qui, a dargli retta, con le loro chiacchiere e i loro distintivi, i loro comunicati stampa da macchiette di Churchill e i loro tweet da quinta elementare, che ci pensano loro, che il vento è cambiato, che la pacchia è finita e che qui non si fanno prigionieri. Tutti. Tutti quanti. Tutti uguali. Destra, centro, sinistra. Tutta la stessa roba, la stessa fuffa, la stessa rebonza.
La giornata di venerdì sulla Statale Regina, che da anni devasta il ramo comasco del Lario, ma che spande i suoi mefitici effetti anche sulla viabilità meridionale della provincia di Sondrio e su quella settentrionale della provincia di Lecco è stata qualcosa al di là del disservizio quotidiano, dello scandalo quotidiano, della vergogna quotidiana. E’ stato qualcosa di più. Anche perché il disastro allucinante del traffico, con una coda ininterrotta di quasi venti chilometri, non è stato causato da un incidente, ma si è creato in modo spontaneo per un afflusso totalmente fuori controllo delle masse turistiche. Gente imprigionata per ore in colonna, trasporti pubblici paralizzati, controlli risibili o assenti, movieri del tutto insufficienti nelle strettoie. Caos. Anarchia. Abbandono. Menefreghismo. L’Italia. La solita Italia. La solita Italietta spaghettara baffo nero mandolino.
Ma quella di venerdì non è diventata una data simbolo solo per questo: siamo nel mezzo di un ponte lunghissimo e con temperature quasi estive, era immaginabile che ci sarebbe stato l’assalto alla diligenza e sarebbe stato saggio rinunciare alla gita in riva al lago. No, il tema stridente e inaccettabile è che mentre migliaia di auto erano intrappolate da Cernobbio a Menaggio e mentre la follia vacanziera si spargeva fino a Bellagio, Varenna e alle altre località del Lario, il cantiere della variante della Tremezzina era fermo. Così come era fermo il giorno prima, la settimana prima, il mese prima, l’anno prima. Ed è davvero spassoso sentire i cervelloni di Anas, anzi, gli intelligentoni di Anas, anzi, i premi Nobel di Anas, con svariati sedicenti statisti a corredo, trombonare con tanto di pifferi e tamburi sul fatto incontrovertibile che il cantiere sia aperto e fattivo e alacre e coeso e adeso e proteso verso i rapidissimi lavori e gli infaticabili scavi e le diuturne esplosioni nel segno dello sviluppo della comunità lariana. Ridicolo. Gente ridicola che si copre di ridicolo.
Nessuno fa niente in quel cantiere, questa è la verità. Lo sanno tutti quelli che passano di lì tutti i giorni, non hanno l’anello al naso, non hanno ancora portato il cervello all’ammasso e quindi non se le bevono le baggianate che ci raccontano i premi Nobel e i sedicenti statisti di cui sopra. Quel cantiere è in coma vigile, un vegetale in stato di morte apparente al quale forse una mano pietosa dovrebbe staccare la spina, così almeno dopo arriverebbe la Corte dei Conti e allora sì che ci divertiremmo un po’.
La verità è che di questo scempio non importa a nessuno. O almeno sembra non importare a nessuno, perché altrimenti qualcuno farebbe qualcosa. Anche di eclatante. E invece è tutto palude, sabbie mobili, fanghiglia. Con la perfetta coscienza che di questo passo - e il passo sarà questo, potete scommetterci - ci vorranno almeno vent’anni per finire i lavori e nel frattempo chissà quanti ministri e sottosegretari e deputati e consiglieri e compagnia cantante passeranno a ripetere l’eterno pangramma che adesso si cambia, adesso si svolta, adesso si fa piazza pulita, giusto un attimo prima di venire sommersi dalle risate.
Che fare, allora? In questi casi è sempre utile tornare ai fondamentali. Intervenga chi ha titolo, chi ha la delega, il potere, il dovere di agire e di risolvere. Ci sono istituzioni che detengono la piena responsabilità di questo eterno cantiere e altre che detengono la piena responsabilità del governo del boom turistico sul lago - a proposito, vi diamo una notizia: nessuno sta governando il boom turistico sul lago - che sta portando un sacco di soldi a tanti privati, ma danni irreparabili alla comunità. Bene, se ne occupino loro - che sono stati eletti - visto che sono sempre così lesti a mettersi in prima fila nelle foto e nei tagli dei nastri e nelle dichiarazioni accorate sulla morte del Papa o del Gabibbo o di Carlo Codega e, al contempo, così svelti a scansare le responsabilità quando le responsabilità - tipo questa - li porta a fare delle monumentali figure di palta.
A ciascuno il suo. Che sia chiaro, visto che qualche spiffero è già arrivato: nessuno pensi di rovesciare su questo giornale e su questo gruppo editoriale l’onere di risolvere uno scandalo di tale portata. Noi facciamo informazione. Punto. Di certo non blocchiamo strade, non tiriamo pietre, non incitiamo alla rivolta di piazza e non diffamiamo i politici senza prove. Noi facciamo “solo” informazione. E quindi supporteremo con grande forza e grande tenacia, così come abbiamo fatto negli anni passati – se non fosse stato per noi avremmo ancora le palizzate e le reti sul lungolago di Como - tutte le campagne di opinione a favore dello sblocco dei lavori. Ma niente di altro.
E’ ora che i sedicenti statisti ci mettano la faccia, per quanto potrebbe non essere un bello spettacolo.
@DiegoMinonzio
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