La legge dei social: nascondere le difficoltà

Sono cresciuto accompagnato, ma non guidato, dalla “Bibbia”della sociologia nazionale. Quei rapporti annuali firmati dal professor Giuseppe De Rita, presidente del Censis, l’istituto che per lustri ha scritto l’autobiografia collettiva degli italiani: la radiografia di un Paese instabile, quasi schizofrenico con molte facce, spesso contraddittorie.

Al di là del valore scientifico del ritratto, sono costretto a concludere che gli italiani sono camaleonti, un giorno su e un altro giù, stili e tenori di vita che girano come la ruota del cricetmarcoo, fasce sociali che nello spazio di un mattino migrano dall’isola dei ricconi al rifugio dei poveracci.

Nel Belpaese chiudono le edicole e fioriscono centri studi in ogni angolo, gli opinionisti si moltiplicano e abboccano come trote specie in periodo elettorale, quando non solo i sondaggi spesso non ci prendono, ma gli stessi exit poll portano fuori strada costringendo i sapientoni a manovre da ritiro della patente. Il mio scetticismo tuttavia si sposa con la curiosità ed è con questo spirito che, nel pezzo di oggi, vi informo su alcuni risultati dell’indagine “My People” elaborata dal ministero dell’Istruzione in collaborazione con vari Enti, fra i quali il centro studi Polis Lombardia.

I dati parlano chiaro: in Provincia di Lecco una famiglia su quattro vivrebbe in gravi difficoltà economiche, incapace di arrivare a fine mese senza tagli dolorosi. Quasi il 50% non sarebbe in grado di sostenere una spesa imprevista fra gli 850 e i tremila euro.

Sono percentuali che raccontano un disagio non effimero ma strutturale. Eppure la scena urbana suggerisce un mondo al contrario. Frotte di Suv parcheggiati in ogni via a rischio multa, berline fiammanti davanti a condomini popolari, cellulari di ultima generazione insostituibili compagni di chi poi confessa di dover ridurre le spese alimentari.

Il paradosso si reitera in altri campi. Lo esprimono bene anche i numeri della vita sociale: circa il 30 per cento delle famiglie lecchesi dichiara di non potersi permettere di uscire a cena nemmeno due volte al mese. E allora, come mai sui social è tutto un trionfo di tavolate e brindisi, di capolavori gastronomici che ormai vengono diffusi come fossero quadri d’autore (e relativi prezzi).

È la legge dell’apparenza: un apericena postato su Instagram può cancellare agli occhi del prossimo invidioso settimane di pasti frugali e di Morfeo raggiunto all’ora delle galline. E ancora. Più di un terzo delle famiglie rinuncia a una vacanza di una settimana lontano da casa, mentre un quarto dei cittadini dichiara di avere ridotto le portate di pranzo e cena.

Ma c’è una voce che ancor m’offende, quel 27 per cento costretto a rinunciare a visite mediche e specialistiche per motivi economici e perché spesso si è costretti a ricorrere alle strutture private perché in quelle pubbliche devi aspettare anche un anno per operare una cataratta.

Nonostante l’autorevolezza della fonte, so per esperienza che i dati vanno presi con le pinze, ma basta avere un contatto quotidiano con i concittadini di ogni ceto e censo per cogliere questa cultura dell’apparire e mascherare. Lecco, terra di lavoro solido, dove l’arte del fare prevale su quella dell’immaginare, questo scenario può tornare inverosimile e persino fastidioso.

Ma sarebbe troppo semplice cestinare numeri e percentuali che sfidano apertamente la percezione e provano a minare le nostre radicate convinzioni.

Le stesse forze politiche che stanno predisponendo, mi auguro, il programma per le prossime elezioni comunali del 2026 non si lasceranno certo trarre in inganno da un acquerello a tinte fosche, ma dovrebbero certamente cogliere il monito di andare in profondità, oltre le apparenze e soprattutto al di là del proprio perimetro.

Avere una visione della città per me significa non solo saper pensare a Lecco e al suo futuro e alla sua comunità, ma pensare Lecco.

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