“Indivisible”, l’organizzazione che con l’Unione americana per le libertà civili (e almeno altre 200 sigle più o meno grandi) più ha lavorato per portare la gente in piazza, l’ha descritto come “uno dei più grandi giorni di protesta nella storia degli Stati Uniti”, e di certo non ha esagerato.
Le manifestazioni anti-Trump all’insegna dello slogan “No Kings” (Nessun re) sono state più di 2.700, dagli enormi cortei di New York e Chicago ai piccoli raduni nella main street delle cittadine di provincia, e hanno fatto sfilare e protestare circa 7 milioni di persone. Un’onda imponente come non si vedeva, forse, dai tempi del Vietnam. Un’onda, soprattutto, crescente: erano state 5 milioni di persone in giugno e meno ancora in aprile.
L’indignazione popolare ha ormai una lunga serie di bersagli. A Donald Trump viene contestato l’atteggiamento autoritario, la durissima politica anti migranti, l’impiego della Guardia civile nelle città governate da democratici e da lui qualificate come degradate e incontrollabili, le politiche sulla salute, gli sgravi fiscali concessi ai redditi più alti, la repressione del libero pensiero nelle Università, in generale l’uso assai disinvolto (e da chi protesta giudicato eccessivo) dei poteri presidenziali. Alle critiche Trump ha risposto in piena coerenza con il suo stile, pubblicando un video che lo mostra alla guida di un aeroplano, con una corona da re in testa, impegnato a scaricare liquami immondi sui cortei.
È difficile dire dove porterà questo sommovimento della società civile Usa, e ancor più difficile dire a che cosa porterà. Per due fondamentali ragioni.
Il Trump 2 è molto diverso dal Trump 1. Questo è molto più duro e organizzato, ha subito fatto piazza (quasi) pulita negli apparati, attacca gli avversari senza riguardi ed è circondato da un gruppo in apparenza inossidabile di fedelissimi. Nei primi sei mesi della prima presidenza, Trump aveva rimosso o era stato abbandonato da una dozzina di importanti collaboratori. Oggi nessuno si muove. Per aprire crepe politiche in questo muro (ecco la seconda ragione) ci vorrebbe un Partito democratico astuto e pugnace, capace di trasformare il Congresso in un campo di battaglia, mentre quello attuale è in una crisi evidentissima di leadership e di idee e viene di fatto sostituito dall’iniziativa di associazioni e Ong.
L’una e l’altra cosa, però, ovvero i comportamenti di Trump e la mobilitazione per contestarli, segnalano un fatto importante: quanto il trumpismo abbia cambiato e stia cambiando gli Usa. È una constatazione che viene da lontano, da quando Trump veniva considerato un personaggio tutt’al più pittoresco.
Il tycoon prima ha raccolto un seguito sfruttando media e social come nessun altro aspirante politico prima di lui; con quel seguito ha cambiato il Partito repubblicano, stravolgendone stile e abitudini; e con il nuovo Partito è andato alla Conquista della Casa Bianca, che ora gestisce nel modo che si è detto. L’America che non si rivolge più a rappresentanti e senatori ma salta le mediazioni e porta in piazza le proprie ragioni è quella che “sente” un’emergenza in corso, come appunto ai tempi del Vietnam, e vuole occuparsene di persona. Il grande semplificatore Trump (come dicono Witkoff e Kushner, come lui arrivati alla politica dall’immobiliare: prima facciamo l’accordo, poi vediamo i particolari) ha ridotto il dibattito pubblico ai suoi termini essenziali: io o loro, il più forte vince. Con le leve del potere, per ora, la sua Casa Bianca non trema.
Ma che potrebbe accadere se, domani, le piazze trovassero un loro Kennedy, un Luther King o anche “solo” un Obama?
© RIPRODUZIONE RISERVATA