
Come nel “gioco dell’oca”, Israele, nella sua lotta contro Hamas, sembra tornata indietro alla prima casella.
Memore dell’esperienza dei Vietcong in Vietnam negli anni ‘60 del secolo scorso, l’organizzazione terroristica s’è avvalsa negli ultimi due anni del dedalo di cunicoli che l’ha resa sufficientemente impermeabile ai bombardamenti e ha impedito una vittoria militare definitiva dell’esercito israeliano. Nell’inferno del mondo sotterraneo e parallelo costruito sotto Gaza - terra desolata fatta di macerie e popolata da vittime civili impaurite e affamate - vivono invece il presente e il futuro di Hamas che mantiene il controllo del territorio e regola i conti con avversari ritenuti possibili interlocutori del governo di Tel Aviv. La tregua e il Piano di pace, la cui fase 2 (disarmo, allontanamento di Hamas e insediamento di strutture transitorie di controllo e governo del territorio) appare molto lontana, consentono alla leadership terroristica di riorganizzarsi, reclutare nuovi adepti e prepararsi a una nuovo conflitto armato. Gli Stati arabi e la Turchia - che nella narrazione diffusa dalla maggior parte dei media di tutto il mondo, dovrebbero porre un freno al riarmo dei palestinesi a Gaza - non sembrano avere i mezzi per intervenire direttamente sul terreno né in grado di incidere significativamente sul piano politico. Tragicamente, i massicci aiuti umanitari previsti immediatamente dopo lo scambio degli ostaggi israeliani e dei combattenti palestinesi giungono con il contagocce per il blocco del valico di Rafah, imposto dagli israeliani che lamentano di non aver ricevuto tutti i corpi degli ostaggi deceduti.
Ma se la realtà offre più ombre che luci dopo annunci roboanti di una pace duratura, per Trump e soprattutto per Netanyahu si preannunciano tempi difficili. Il presidente americano per il momento resta a guardare, continua a manifestare una generica fiducia e ha spostato subito l’attenzione dei media sul versante della guerra in Ucraina preannunciando un possibile nuovo Vertice con Putin. Ma è il premier israeliano a dover avere le preoccupazioni maggiori. Se il disegno di cacciare Hamas da Gaza non diventa realtà, il primo imputato del fallimento sarà lui e usciranno allo scoperto i suoi nemici. E non sono pochi. I militari da tempo avevano manifestato scetticismo sulla riuscita di un’operazione (l’occupazione di Gaza e la distruzione di Hamas) che ritenevano impraticabile anche per l’evidente logorìo fisico e psicologico di parte delle Forze armate.
Da destra i partiti più estremisti lo accuseranno di essersi lasciato irretire da Trump e dalle pressioni americane per arrivare a una tregua e non sferrare il colpo decisivo ai terroristi. La società civile israeliana è profondamente divisa e una buona parte ritiene che sia indispensabile rapidamente un cambio di governo e di leadership. La magistratura infine lo aspetta al varco, una volta destituito dal potere, per metterlo nuovamente sotto accusa per i reati di frode. Di tutto ciò Netanyahu è ben consapevole e l’unica via di uscita per lui sembra la ripresa delle ostilità in tempi rapidi per non dare troppo tempo ai combattenti palestinesi di riorganizzare la propria struttura apicale e rimettere in piedi una difesa credibile. È la fine del Piano di pace e delle speranze per il popolo palestinese? Se occorre una grossa dose di ottimismo per sperare che progressivamente i 20 punti del Piano si concretizzino, la ripresa delle ostilità potrebbe essere in qualche modo evitata. Le chiavi per il mantenimento della tregua attuale e la prosecuzione del percorso di pace stanno ancora una volta soprattutto nelle mani di Trump. Potrebbe minacciare un intervento militare americano contro Hamas, oppure arrendersi alla realtà sul terreno e intimare a Netanyanu di non riaprire le operazioni militari, pena la perdita del supporto statunitense.
Del resto il presidente americano ci ha abituato a giravolte improvvise e cambiamenti di umore. Quanto agli invitati alla “festa” di Sharm El Sheik di qualche giorno fa, è difficile pensare che Paesi come Qatar e Turchia - già mediatori e notoriamente sensibili alle istanze di Hamas e dei Fratelli musulmani - agiscano contro l’organizzazione terroristica. Tutti gli altri, se non vi saranno le condizioni ritenute ottimali, si ritireranno nel consueto silenzio rimanendo in disparte. In ogni caso la soluzione di “due popoli due Stati” rimane per il momento un sogno.
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