In un mondo che affonda sempre più nella spirale della guerra, le parole di Leone XIV restano le uniche a risuonare chiare e forti.
Mentre gli Stati si avvitano in dichiarazioni divisive e stranianti, incapaci di costruire un linguaggio comune di pace, il Papa si rivolge ai popoli lacerati, ai civili privati di tutto in fuga verso il nulla, alle famiglie schiacciate dalla violenza.
«Non c’è futuro basato sulla violenza, sull’esilio forzato, sulla vendetta» ha detto rivolgendosi agli operatori cattolici impegnati in aiuti umanitari a Gaza. Un monito che risuona come una voce nel deserto, ma che proprio per questo acquista potenza profetica. Il contesto è drammatico. In Ucraina la guerra è giunta al giorno 1.306. Nella notte tra il 19 e il 20 settembre, Mosca ha scagliato contro Kiev centinaia di droni e quaranta missili: tre morti e nuove devastazioni.
Con l’Ucraina e l’Europa Putin continua a giocare al gatto col topo. La risposta non si è fatta attendere: attacchi mirati contro raffinerie russe nelle regioni di Saratov e Samara. Intanto Zelensky invoca compattezza dagli alleati, ammonendo: «Smettere di sprecare tempo».
Sul fronte mediorientale, lo scenario è persino più cupo. A Gaza oltre 550mila civili hanno abbandonato la città per rifugiarsi a sud, nel tentativo disperato di salvarsi dall’offensiva dell’Idf. Non hanno nulla e forse non avranno nemmeno una terra dove riposare, perché il valico di Rafah è chiuso. L’ennesimo fiume umano in una terra martoriata da decenni, dove le parole “pace” e “giustizia” sembrano bandite dal vocabolario della politica. Ieri si è aperta un’Assemblea delle Nazioni Unite a dir poco storica, anche se con effetti probabilmente ai minimi per l’ostinazione degli Stati Uniti che hanno persino negato al presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen di parlare in diretta.
Donald Trump, che ha trasformato i funerali di Charlie Kirk, a Phoenix, in una gigantesca ostentazione della potenza Maga, dichiara di cercare un piano postbellico coinvolgendo i leader arabi, ma l’ipotesi di una forza multinazionale rischia di somigliare più a un’altra occupazione che a un orizzonte di convivenza.
In mezzo a questo caos di summit, accuse incrociate e calcoli geopolitici, Leone torna a ricordare che «i popoli hanno bisogno di pace: chi li ama veramente, lavora per la pace». Non slogan, non formule diplomatiche, ma un principio evangelico che, se accolto, avrebbe la forza di rovesciare i tavoli dei potenti. La sua denuncia della «spudorata indifferenza» che condanna intere nazioni alla guerra e alla miseria brucia come un atto d’accusa.Eppure, nelle capitali del mondo, i governi preferiscono contare missili e barriere, rincorrendo una sicurezza illusoria. Bloomberg riferisce che Putin è convinto che l’escalation militare sia la via migliore per forzare Kiev a trattare. Varsavia alza i jet dopo l’ennesima violazione russa dello spazio Nato. Ehud Olmert, ex premier israeliano, predice la fine politica di Netanyahu, «dalla parte sbagliata della storia». Ma sono voci isolate in un coro assordante di strategie belliche.
Il Papa invece indica un’altra strada: annunciare «con la parola e con le opere» e caricarsi il peso di «testimone di carità e di pace». È un invito che non riguarda soltanto i fedeli, ma tocca la coscienza universale. In un tempo segnato dal disorientamento, egli ricorda che lì, proprio lì, Satana trova terreno fertile.
Oggi la posta in gioco non è soltanto la vittoria di un esercito sull’altro, ma la sopravvivenza di un tessuto comune di umanità. E in questa notte di guerra, la voce del pontefice rimane una delle poche luci capaci di orientare. Sta a noi decidere se ascoltarla o continuare a smarrirci nel frastuono delle armi.
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