L’attacco all’Iran, una lotta per la vita

Già 25 anni fa Israele contattava i media occidentali per proporre informazioni riservate su un tema che descriveva come delicatissimo: l’avvio di un programma segreto dell’Iran per costruire la propria bomba atomica. Lo Stato ebraico cercava buona stampa e sostegno internazionale per la sua politica tesa a impedire che questo obiettivo si realizzasse: il regime degli ayatollah doveva essere smascherato e isolato, fermato con i mezzi della politica prima che fosse troppo tardi.

E se questo non fosse accaduto, doveva esser chiaro che a Israele non sarebbe rimasta che la disperata opzione estrema, quelle dell’attacco militare – da soli o con il sostegno dell’alleato americano – contro i siti atomici iraniani.

È l’opzione che è andata drammaticamente in scena a partire dall’altra notte, quando duecento aerei con la stella di Davide hanno colpito al cuore non solo persone e luoghi dedicati alla costruzione dell’arma letale in Iran, ma il regime stesso che ha giurato la morte di Israele. Venticinque anni di allerta, negoziati e minacce non sono bastati a far venir meno il punto fondamentale di questa terribile vicenda: della Repubblica Islamica dell’Iran non ci si può fidare e il rischio che la sua leadership di fanatici religiosi si ritrovi tra le mani la più spaventosa delle armi di distruzione di massa non può essere corso.

Sì, il punto è questo. Non tutti i soggetti che possiedono o che potrebbero possedere la bomba atomica sono uguali. Per paradosso, è stata infatti proprio la consapevolezza – figlia dell’incancellabile choc del destino di Hiroshima e Nagasaki nel 1945 – dell’impossibilità di fare uso degli arsenali nucleari in un conflitto senza provocare conseguenze insostenibili per l’umanità e per lo stesso pianeta Terra, a garantirci ottant’anni di pace. Le grandi potenze atomiche, divise da ideologie inconciliabili nei lunghi decenni della Guerra Fredda, non hanno potuto scatenarsi le une contro le altre proprio in virtù di quell’incubo sempre presente. Le loro leadership politiche rimanevano razionali e dunque il concetto di “reciproca distruzione assicurata” attraverso i mostruosi ordigni atomici ha appunto fatto sì che la guerra rimanesse non combattuta. Ancora oggi, quando la Russia di Putin, rabbiosa per la sua impotenza ad aver ragione della resistenza dell’Ucraina, minaccia ciclicamente a denti stretti un “impiego tattico” di bombe atomiche, nessuno crede realmente che si arriverà mai a tanto: perfino il brutale imperialista Putin rimane al fondo un razionale, costretto a valutare i pro e i contro dei suoi progetti di aggressione.

Non così gli ayatollah iraniani. La corrente sciita dell’islam, che essi rappresentano, conosce picchi di fanatismo che in Occidente fatichiamo a comprendere. Morire per l’affermazione dell’islam e per la distruzione dei suoi nemici è considerato il più alto onore, sicché il rischio di una più che probabile devastante risposta atomica (anche Israele possiede un arsenale nucleare, sebbene non lo ammetta ufficialmente) sull’Iran dopo un attacco sullo Stato ebraico con missili con testata dello stesso genere viene considerato accettabile in cambio dell’incommensurabile onore di passare alla Storia come il Paese islamico che ha “estirpato il cancro del sionismo dalla Palestina” (tale è il linguaggio cui ricorrono i capi di questo regime iraniano).

Insomma, l’Iran sarebbe l’unico Stato che cerca di dotarsi della bomba atomica per usarla effettivamente in un’azione aggressiva e non per difendersi dalle minacce altrui. E quale sarebbe l’obiettivo di una tale aggressione (Israele) non è mai stato celato dagli stessi vertici del regime di Teheran, se non in qualche fase negoziale nel corso di questi anni e per puri motivi tattici. È ben per questo che il vero obiettivo di Netanyahu – e probabilmente anche di Donald Trump – non si limita alla distruzione dei siti di produzione dell’atomica iraniana, ma sembra consistere nella caduta stessa del regime che cerca di realizzarla.

“Vaste programme”, direbbero i francesi: anni di tentate rivolte hanno dimostrato che la ferocia degli sgherri di Khamenei ha sempre avuto ragione della disperata volontà di libertà di gran parte del popolo iraniano. È una scommessa che potrebbe anche fallire. Eppure se, dopo venticinque anni di tira e molla, Netanyahu si è deciso a colpire con tanta decisione in Iran, questo significa necessariamente due cose: che alla costruzione della Bomba iraniana mancava davvero pochissimo tempo, e che i margini per qualsiasi genere di compromesso erano ormai venuti meno. Israele ha deciso di impegnarsi in una lotta per la vita.

Dai nostri comodi divani italiani, ci è difficile capire il senso compiuto di questo concetto, ma i discendenti dell’Olocausto non l’hanno mai dimenticato.

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