Legge elettorale a misura di partiti

Un vecchio modo di dire lombardo è: “C’ha i me cicc che giügà pu’”. Cioè: ridatemi le mie biglie, che non gioco più. Si usava per indicare uno che non sa perdere, ma che al tempo stesso è il padrone del gioco. Un po’ quello che sta succedendo dopo le elezioni regionali.

Premessa: ancora non si è capito davvero chi abbia perso. Le uniche certezze sono che in Veneto ha vinto il centrodestra e che in Campania e Puglia ha prevalso il campo largo. Per il resto, i risultati dei partiti , a seconda di come li si confronta, offrono letture diverse.

Di sicuro, in termini assoluti, sono calati più o meno tutti, perché il partito dell’astensione (l’unico che cresce sempre) ha raggiunto il 60%.

Giorgia Meloni e i suoi, però, hanno interpretato l’esito come una sconfitta e hanno subito annunciato, tramite Giovanni Donzelli, di fatto il segretario operativo di Fratelli d’Italia , l’intenzione di cambiare la legge elettorale. Una mossa che ricorda da vicino il personaggio immaginario che si porta via le biglie. E che, inevitabilmente, suona come un segnale di debolezza.

Immediata la reazione dell’opposizione: “Vogliono cambiare le regole perché sanno che nel 2027 perderanno”. Pronta la controreplica della maggioranza, peraltro non così compattissima (ogni partito guarda al proprio orticello): “Servono norme che garantiscano maggiore stabilità”.

Due precisazioni:

Di cambiare la legge elettorale si discute già da tempo, e non solo nella maggioranza.

L’attuale norma, il “Rosatellum”, è frutto dell’ingegno di un esponente del centrosinistra, Ettore Rosato, ed è un sistema oggettivamente pessimo.

Lo è innanzitutto perché, da quando è entrato in vigore (2017), solo una volta ha prodotto dalle urne una coalizione chiaramente vincitrice. Prima ci sono stati due governi nati da alleanze improbabili fra forze che si erano combattute in campagna elettorale: Cinque Stelle-Lega e Cinque Stelle–Pd, entrambi caduti prima della fine naturale della legislatura. Inoltre, all’indomani delle regionali è circolato uno studio che, proiettando gli attuali voti sulla base del Rosatellum, segnala che sarebbe impossibile ottenere una maggioranza al Senato.

C’è poi un ulteriore problema: la legge contiene in sé un meccanismo che la rende difficilmente superabile. È quello che consente alle segreterie dei partiti, al netto delle primarie (che non sono un obbligo), di decidere di fatto gli eletti attraverso le posizioni in lista o le candidature nei collegi uninominali. All’elettore è stata tolta la prerogativa delle preferenze. Ed è sicuramente una delle ragioni della crescente disaffezione per il voto.

Se io volessi che venisse eletto Mario Rossi ma lo trovo all’ultimo posto della lista che sono costretto a votare, so già che il mio voto non servirà allo scopo. A quel punto tanto vale restare a casa. Curioso, ma non troppo, che nel dibattito sulla nuova legge elettorale questo aspetto venga sistematicamente ignorato.

Il rischio è che i partiti producano un’ennesima norma modellata sulle esigenze delle segreterie, che, grazie al Rosatellum costruiscono gruppi parlamentari del tutto allineati, con buona pace del vincolo di mandato, e non su quelle degli elettori.

Così a questi ultimi resta una sola “arma”: non votare, restare a casa sempre più numerosi. Ma è una pistola scarica, perché la politica, semplicemente, se ne infischia.

E pazienza se abbiamo Regioni, Comuni e – forse tra due anni – anche lo Stato, governati da rappresentanti eletti con percentuali che oscillano fra il 25 e il 40%. Minoranze che, però, non vedono limitata neppure una prerogativa.

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