Meloni, leadership e comode ambiguità

La leadership di Giorgia Meloni è alla prova: nell’immediato, sui dazi e su Gaza. Lo è nel momento in cui la prestigiosa rivista americana «Time» ha riconosciuto e celebrato l’influenza internazionale della premier italiana, dedicandole la copertina e illustrando in tono sostanzialmente positivo «dove sta portando l’Europa». Negli stessi giorni, per una curiosa coincidenza, il presidente argentino Milei è stato protagonista del Festival della destra a Cordoba, portando le sagome di cartone di Trump e Meloni, insieme con quelle dello spagnolo Abascal, del brasiliano Bolsonaro e di altri capi estremisti dell’America Latina. Non esattamente un club di oxfordiani. Due racconti fra loro stridenti e qualche osservatore s’è chiesto chi sia davvero Meloni che, abile nel maneggiare la sfera emozionale, ha costruito la propria immagine sul riscatto di una donna svantaggiata (underdog).

Se per lo scrittore Emmanuel Carrére, indagatore della psicologia, la signora Giorgia «è la persona meno impenetrabile che ci sia», e se i sondaggi in Italia continuano a premiarla, lei deve molto alla propria confortevole ambiguità, che le serve da ammortizzatore: tiene il piede in due scarpe. In questo è favorita dalla nuova grammatica politica che si va diffondendo in Europa, condizionando da destra le famiglie storicamente centriste, come i popolari di Ursula von der Leyen e del cancelliere tedesco Merz. Meloni usufruisce di una doppia rendita di posizione: essere ideologicamente atlantista e porsi sull’uscio dell’europeismo con un piede dentro e uno fuori, essere diversa ma omologabile all’establishment in modica quantità (Fitto è uno degli eurocommissari), può dimenticare il populismo stile opposizione senza diventare moderata, accettare le regole pur mantenendo una spinta identitaria, non far parte della maggioranza e qualche volta pure sì. La festa, tuttavia, potrebbe non durare a lungo e qualche indizio concreto viene proprio dall’esito della battaglia sui dazi (fin qui un accordo verbale in attesa di negoziare i dettagli). Sul piano economico - stando alla linea prevalente dell’Ue – abbiamo assistito al trionfo del «meno peggio», su quello politico si allunga l’ombra di una sconfitta europea con l’affermazione della forza dell’America di Trump, il solo linguaggio che parla l’amico di Washington. Non risulta che l’Italia abbia esercitato una particolare influenza in questa vicenda, come era parso inizialmente dallo scarto velleitario di porsi da pontiere con la Casa Bianca per affinità ideologiche.

Trump, in sostanza, non è stato indotto a più miti consigli da questa relazione speciale. Anzi: il suo successo sta nell’essere riuscito a imporre la propria agenda. Il nostro governo, poi, s’è allineato perfino più di altri alle posizioni di Bruxelles. La convergenza con la Germania, i due Paesi maggiormente esposti in questa partita impari, è plausibile nella logica del contenimento dei danni e per evitare l’escalation, ma ha determinato l’atteggiamento remissivo dell’Europa. In questo modo l’alleanza fra il popolare Merz e la sovranista Meloni, che ha prevalso sul liberale Macron e sul socialista spagnolo Sanchez, ha ribaltato la maggioranza di centrosinistra che ha eletto von der Leyen. Il risultato per i due referenti di Meloni è questo: Trump ha incassato, ha fatto centro e s’è rafforzato, la presidente della Commissione s’è indebolita anche come immagine. Il cedimento al trumpismo sta producendo così uno squilibrio anche politico, rivelando i limiti di una leadership di Bruxelles che pende a destra pensando di rimediare alla propria vulnerabilità, un «paziente europeo» curato con la medicina sbagliata.

Altra questione, quella israelo-palestinese dove il governo Meloni si segnala per il suo eccesso di prudenza verso Netanyahu. Può essere che il profilo basso sia una scelta per favorire una strategia diplomatica, ma si presta a considerazioni di altro genere. Anche la realpolitik ha i suoi confini. Di fronte all’indicibile scempio delle flagranti violazioni dei diritti umani e della dignità delle persone che si accanisce sulla popolazione palestinese di Gaza, «non sono più possibili ambiguità né collocazioni intermedie», come ha scritto con precisione valoriale una nutrita schiera di ex ambasciatori. Pure qui torna il termine «ambiguità» e potremmo aggiungere quello di una influenza che non c’è più da parte di un’Italia già in passato piattaforma diplomatica discreta e capace di tessere una trama originale, un’architettura creativa nel Mediterraneo allargato e in Medio Oriente.

Avevamo un ruolo e lo abbiamo smarrito, un deficit che precede l’esecutivo Meloni. L’Italia e l’Europa non toccano palla, con l’eccezione della Francia e di qualche altro partner, pur avendo le leve commerciali e giuridiche per farsi sentire prima che sia troppo tardi. In definitiva, la lodata influenza internazionale della premier italiana, che sta con Trump senza poter rompere con l’Europa, non riesce a costruire mediazioni attive. Citando Prodi, «firma un contratto di assicurazione per il suo futuro, ma rende l’Italia periferica».

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