
Il terreno comune tra Partito Democratico e Lega, a qualunque livello, non può certo definirsi ampio. Casomai può essere un pertugio, un fosso striminzito, a voler essere generosi. Assume quindi tratti sorprendenti e quasi onirici il voto all’unisono delle due forze politiche, l’una a supporto della mozione dell’altra, durante il consiglio comunale di Lecco di lunedì scorso. Il tema? Non qualche inutile presa d’atto, né un tributo toponomastico a un padre nobile della città. Al contrario, la convergenza su un tema che più divisivo non si potrebbe: la sicurezza. Anzi, per metterla giù piatta, l’esercito nelle stazioni (e in quella del capoluogo, soprattutto) a tutela di pendolari e lavoratori ferroviari. La Lega ha chiesto di aderire al progetto regionale “Strade sicure”, gli alleati di centrodestra l’hanno seguita ma, insieme a loro, anche Italia Viva e Pd. Astensione della civica ambientalista, voto contrario della sinistra.
Anzitutto occorre precisare che la mozione impegna la giunta, ma non ratifica alcunché. Che il progetto in questione sostanzialmente affida un contingente militare al prefetto (e non ai singoli Comuni) e che l’iter era comunque già in corso dopo il pressing di alcuni municipi di centrodestra e un voto unanime in Provincia.
Ma il punto è un altro. L’anomalia lecchese, se vogliamo, viaggia controcorrente rispetto alla relazione storicamente contraddittoria della galassia della sinistra (e in generale della cultura progressista) con tutto ciò che odora di ordine, di controllo, di antilibertario. In quota Millennials fa probabilmente gioco il richiamo al faccione di plastica di Guy Fawkes, mentre spingendosi più indietro nel tempo potrebbe calzare a pennello il clima sulfureo delle Questure tratteggiato dal capolavoro assoluto che è “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, con un Gian Maria Volonté senza eguali. Per i cultori di Foucault, corre l’obbligo di citare la metafora del Panopticon, celebre torre rotonda e radiale in cui tutti si sentono controllati proprio perché hanno la percezione di esserlo. E giù, a caduta, con una vasta letteratura di psicopolizia e silenzioso controllo delle masse che ingloba Baumann, Chomsky e ovviamente Orwell.
C’è tuttavia anche un altro lato della medaglia. Soprattutto nei luoghi in cui lo stato sociale è più avanzato (e Lecco rientra nel novero, con decenni di coprogettazione alle spalle e una vista molto acuta sull’orizzonte delle risposte comunitarie alla crisi sociale), alzare l’asticella del controllo e della repressione è avvertita come la sconfitta di un modello di integrazione sul quale una certa parte progressista fonda la sua ragion d’essere. Tradotto (è il mantra che qualche assessore ha declamato anche qualche anno fa a Lecco): non è delinquenza, soltanto povertà educativa.
Le cose però non sono così semplici. Nel gigantesco guazzabuglio dei nostri tempi, nei quali le categorie di pensiero e di struttura sociale ricevute in dote dal morente Novecento hanno finito per fondersi e mischiarsi come il delta di un fiume nel mare, è rimasto poco o nulla di certo. Nelle nostre città esistono emarginati che però sono anche conclamati delinquenti, ci sono figli di stranieri integrati che abbracciano volontariamente la scelta penalizzante di un ghettizzazione linguistica e culturale. Ci sono paure, fobie, accessi d’ira grottescamente condivise tra persone perbene e vergognosi razzisti. Ci sono numeri reali di furti, rapine e aggressioni, e la sensazione puramente epidermica di poterne subire una ogni volta che si cammina nel sottopasso della stazione. Dove sta la ragione e dove il torto? Qual è la linea di separazione tra realtà e percezione? Quali diritti devono prevalere? Non è così semplice categorizzare il mondo. Vale ovviamente per quella destra che cavalca i messaggi social di chi scrive più o meno letteralmente “Dateli a me, che so io cosa farne”, ma vale anche per quella sinistra che credeva di risolvere tutto con il welfare, ed era certa che le camionette dell’esercito fossero la risposta adatta soltanto agli ignoranti o ai destrorsi.
Ci è voluta la stagione breve e contraddittoria di un Marco Minniti al governo per provare a convincere il mondo riformista che non ci sono paure di destra e paure di sinistra, e che l’ordine urbano può anche essere un caposaldo progressista. Un vento, chi ha buona memoria se lo ricorda bene, che aveva in parte condizionato anche le scelte lecchesi del secondo mandato di Virginio Brivio, quando alcune problematiche iniziavano ad affacciarsi alle porte del cambio repentino di identità subito dai medi e grandi centri urbani. E’ in quegli anni che matura il ricorso sistematico alla videosorveglianza in città e il tentativo fallimentare dei daspo urbani a Lecco. Da sinistra, insomma. Non da destra.
La stagione di Minniti si è chiusa precocemente e la sensazione è che solo le grandi metropoli (con i loro sindaci oligarchi e più o meno affrancati dal controllo dei partiti) abbiano tenuto viva una riflessione del tutto rinnegata dal centrosinistra a livello nazionale.
Eppure, la complessità è la cifra del nostro tempo ed è forse il miglior augurio che si possa fare alla politica, nazionale e locale. Anche quando, come a Lecco lunedì scorso, tocca turarsi il naso e votare a braccetto con chi sta nell’opposta trincea. Ammesso e non concesso che tutto questo non sia solo un carosello politico bipartisan per non lasciare scoperta la casella “sicurezza” dai volantini delle prossime elezioni.
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