Purtroppo, o per fortuna, non esistono risposte semplici o facili, per quanto brutali, a tragedie come quella del Gratosoglio, a Milano, dove quattro ragazzini, non imputabili per la giovane età (il più grande ha 13 anni) hanno investito e ucciso una donna di 71 anni, Cecilia de Astis, con l’auto che avevano rubato.
Purtroppo, perché la cronaca nera, come spesso accade, schiaccia la prospettiva togliendo volume a qualsiasi tentativo di comprensione della complessità. Per fortuna, perché c’è ancora chi prova a mettere da parte l’intramontabile “metodo ruspa” e crede che valga ancora la pena ricordarsi dell’articolo 3 della Costituzione, che impone alla Repubblica la rimozione degli ostacoli che limitano l’uguaglianza tra cittadini, come l’accesso all’istruzione, a un lavoro e a un’abitazione dignitosi.
Un principio che, calato nella realtà del campo rom improvvisato alla periferia sud di Milano dove vivevano i quattro ragazzini, un insieme di baracche e roulotte senza fognature, con i capifamiglia quasi tutti in carcere e con una popolazione minorile in gran parte non scolarizzata, appare confinato, a pensar bene, all’universo delle buone intenzioni. il campo del Gratosoglio era un vulcano quiescente in attesa di esplodere, lasciato lì a macerare fintanto che era confinato in un paesaggio urbano non troppo disturbante. Il parroco del quartiere don Paolo Steffano, al funerale di Cecilia de Astis, ha citato De Andrè: «Non servono i discorsi, i proclami, né lo scaricabarile. È sempre colpa di un altro, di un’altra istituzione. Non servono neppure i documenti sulle periferie, nemmeno quelli sulla convivenza pacifica. Servono fatti concreti. De André dice così: prima pagina, venti notizie, ventuno ingiustizie, lo Stato che fa, si costerna, si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità».
Ecco, la morte di Cecilia de Astis, le domande senza risposta, così colme di dolore, ma anche di civile ragionevolezza, pronunciate ai funerali dai suoi figli, richiamano tutti a non gettare la spugna. Attingendo a un principio di responsabilità condivisa che in questo caso appare essere stato tragicamente ignorato. Dalle famiglie dei ragazzini, innanzitutto.
Il particolare delle magliette dei Pokémon che indossavano, dal quale sono stati riconosciuti dai filmati delle telecamere mentre fuggivano dal luogo dell’incidente, restituisce in maniera agghiacciante la dimensione di infanzia negata nella quale sono cresciuti («Ma quale infanzia? Nei campi è solo un dato anagrafico, già molto prima dei 13 anni si vivono esperienze da brividi. Altro che guidare l’auto, quello è il minimo, lo fanno tutti» ha detto al Corriere della Sera il parroco). Poi, e in misura crescente vista la povertà delle condizioni di partenza delle famiglie, la responsabilità va condivisa anche dalla scuola, dai servizi sociali, dalle forze dell’ordine, dalla Giustizia minorile, dal legislatore.
Non è una chiamata in correo generica frutto di un sociologismo frettoloso. Qui si tratta di responsabilità oggettive, sepolte da anni di pigrizie, negligenze, incomprensioni, sciatterie, stanchezze. Indifferenza, soprattutto.
Negli stessi giorni in cui si consumava la tragedia di Cecilia de Astis, all’ospedale di Treviso moriva un ragazzo di 17 anni, tunisino, arrivato in Italia senza famiglia. Due giorni prima era stato portato al carcere minorile, dove dopo poche ore aveva tentato il suicidio. Non si è più ripreso. Era dal 2003 che non succedeva in un carcere minorile. Intanto il dibattito sulle condizioni disumane a cui sono ridotti gli istituti di pena minorili in Italia si è arenato per l’ennesima volta su un binario morto.
Due morti tragiche nei giorni distratti del Ferragosto, con la medesima matrice: i diritti dell’infanzia calpestati, una grande fuga dalle responsabilità, e quell’articolo 3 della Costituzione che si manifesta, una volta di più, come implacabile misura del fallimento.
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