Al di là dell’enfasi che per abitudine accompagna ogni mossa del presidente Usa, il voto con cui il Consiglio di sicurezza ha sdoganato il suo Piano per Gaza, approvando la Risoluzione 2803, è una grande vittoria diplomatica per Donald Trump. Lo è per diverse ragioni.Intanto perché le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono considerate diritto internazionale vincolante, e anche se l’Onu non dispone di strumenti adeguati per costringere i Paesi renitenti ad applicarle, può comunque sanzionare i trasgressori.
E poi perché al voto favorevole (13 sì e le decisive astensioni di Russia e Cina, membri permanenti del Consiglio con diritto di veto) la diplomazia Usa è arrivata dopo un accorto slalom tra le parti. Israele avrebbe voluto che dal testo della Risoluzione fosse espunto qualunque riferimento a uno Stato palestinese, cosa che Trump non avrebbe potuto fare senza giocarsi il consenso dei Paesi arabi e musulmani (a favore Egitto, Giordania, Qatar, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, oltre a Indonesia, Turchia e Pakistan) e senza rischiare l’opposizione di Russia e Cina. La formula escogitata è astuta e lascia spazio a tutte le interpretazioni: «Le condizioni potrebbero essere pronte per un percorso credibile verso l’autodeterminazione e lo Stato palestinese» se l’Autorità palestinese attuerà le dovute riforme e lo sviluppo di Gaza sarà positivo. In più, la Risoluzione che adotta il Piano per Gaza di Trump approva anche la creazione del Consiglio di pace che Trump stesso dovrebbe presiedere e che «includerà i leader più potenti e rispettati del mondo».
Una carica autoassegnata che massaggia a dovere l’ego del presidente Usa. Che però anche quando proclama che il voto Onu «condurrà a una pace ulteriore in tutto il mondo», alla fine un po’ di verità la dice: è difficile credere che l’astensione di Russia e Cina non sia in qualche modo collegata da un lato al canale di comunicazione che Mosca e Washington tengono comunque aperto a proposito dell’Ucraina e dall’altro al buon esito delle recenti trattative commerciali con Pechino. Immaginare che ci sia, o possa esserci, un qualche scambio non è fantascienza.
Fin qui tutto ciò che è più o meno certo. Da qui in avanti, invece, tutto diventa una scommessa. Conterà il punto di vista di Israele, che ha piantato paletti molto rigidi: niente Qatar o Turchia nella forza internazionale di interposizione, molta ritrosia nel cedere le posizioni nella Striscia, che ancora oggi ammontano al 53% del territorio, nessuno spazio per Hamas o per l’Anp. Conterà la disponibilità a mettersi in gioco dei Paesi della regione, che finora hanno in ogni modo evitato di sporcarsi le mani con la tragedia di Gaza. E conterà la determinazione degli Stati Uniti nel tenere la linea rispetto agli umori nascosti di Israele, dove la destra estrema dei ministri Ben Gvir e Smotrich sente odore di vittoria totale, anche rispetto all’eventuale occupazione della Cisgiordania.
Se questo lato della medaglia pare complesso, l’altro lato, ovvero quello che si vede dalla parte dei palestinesi, è quasi indecifrabile. La forza internazionale di interposizione, nelle intenzioni di Trump, dovrebbe garantire pace e ordine nella Striscia. Ma i gazawi temono che diventi un mero strumento di controllo, soprattutto perché poco si è parlato, finora, dell’aspetto più importante per la popolazione: gli aiuti umanitari, il cibo, il ripristino delle strutture essenziali, dalle scuole agli ospedali.
E quanto potrà fare, quella forza, per allentare la morsa che Hamas ancora esercita, anche a colpi di kalashnikov, su quello che dovrebbe essere il suo popolo, morsa che potrebbe ancora far saltare tutto? Ma soprattutto: quali garanzie hanno i palestinesi, dopo aver festeggiato questo Piano, che ha un chiaro sapore coloniale ma salva loro la vita, che non si tratti solo di una pausa, di un intervallo mentre le grandi potenze sono impegnate altrove (gli Usa in Venezuela, Israele a ricostituire ranghi e arsenali, l’Europa a riarmarsi), che domani potrebbe di nuovo lasciare spazio alla tragedia?
La diplomazia, come si diceva, ha fatto il proprio lavoro. Ma da adesso ci si avventura in una terra politica e militare dove ci sono incognite per tutti ma rischi soprattutto per i palestinesi.
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