L’attacco mirato degli Stati Uniti contro i siti nucleari iraniani ha imposto tre verità ineludibili nel dibattito geopolitico internazionale. Poco importa, a questo punto, discutere della legittimità o meno dello stesso, ancorché dello status di avanzamento del programma nucleare di Teheran: il dado è tratto, e Israele ha agito da principale destabilizzatore sin dal primo mandato Trump.
Prima verità: la violazione del diritto internazionale non è più l’eccezione, ma una regola mascherata da pragmatismo strategico. Le norme che avrebbero dovuto guidare la comunità internazionale dopo il 1945 sono oggi svuotate del loro potenziale universalistico, ridotte a strumento narrativo utilizzato opportunisticamente in base agli interessi degli attori dominanti. Ora la Russia, ora Israele, ora gli Stati Uniti, ora altre potenze, le utilizzano per i propri fini, calpestando norme e consuetudini create da una comunità che non esiste più. Per le istituzioni globali e il diritto da esse scaturito non poteva finire altrimenti, senza un potere coercitivo in grado di garantirne il rispetto.
Secondo, il mito dell’isolazionismo americano, tanto caro al partito MAGA quanto alla retorica trumpiana, appartiene definitivamente al secolo scorso. A questo livello di interconnessione militare, finanziaria e commerciale, è impensabile una ritirata statunitense su posizioni di non intervento totale: quello trumpiano - piuttosto – è un interventismo selettivo e mirato, che fonda le sue radici nella convinzione che l’uso della forza sia il migliore deterrente per scongiurare conflitti su larga scala ed intimorire gli “stati canaglia”.
Terzo: l’Europa – sfumati gli sforzi di tenere agganciato l’Iran ad una riabilitazione dell’accordo sul nucleare seppellito dal primo Trump – conferma la propria irrilevanza strategica nei teatri critici del Medio Oriente, schiacciata sull’asse Washington-Tel Aviv e incapace di proporre una linea autonoma. La netta sensazione è che, come in Ucraina, gli Stati Uniti di Trump non ritengano gli europei – né tantomeno la Commissione – dei partner utili ai loro interessi, costringendoli di fatto ad avallare la linea americana a fatti compiuti.
In questo contesto di caos apparentemente incontrollato, è lecito chiedersi se il mondo stia marciando a tappe forzate verso un nuovo conflitto globale. Troppo presto per dirlo, ma per il momento, paradossalmente, non siamo su questa traiettoria, sebbene lo stile comunicativo del Presidente americano ci porti costantemente ad immaginare un mondo sull’orlo del baratro. In questo caso, il comportamento americano è stato cinico e calibrato, frutto di una logica dissuasiva più che offensiva, fatta salva la palese violazione del diritto internazionale (che però, appunto, trova ben poco spazio nello scacchiere odierno). Del resto, l’imminenza di un attacco era divenuta palese da giorni, e le operazioni militari israeliane non sarebbero potute terminare altrimenti: Teheran se lo aspettava, e vedremo nei prossimi giorni quanto gravi siano i danni alle infrastrutture nucleari iraniane. Certamente, la limitata capacità di risposta e ritorsione iraniana, resa tale dagli attacchi preparatori da parte di Israele, ha permesso agli Stati Uniti di innescare questa escalation controllata, in linea con i paradigmi della Realpolitik di oggi.
D’ora in poi non vedremo, credo, nessuna operazione diretta “boots on the ground”. La stagione delle guerre interminabili in Medio Oriente è stata archiviata da Biden con il ritiro dall’Afghanistan nel 2021, e non ritornerà: per Trump, decidere il contrario sarebbe una giravolta politicamente troppo costosa nei confronti della base MAGA, oltre che finanziariamente dissanguante. L’interventismo americano sarà d’ora in poi selettivo, volto a ristabilire equilibri regionali laddove necessario, in totale continuità con il multipolarismo frammentato che si è venuto a creare.
Ciò che emerge è un ordine internazionale a somma di regionalismi, in cui ogni macroarea avrà un attore egemone che – detenendo potere e influenza in maniera asimmetrica rispetto ai vicini – fungerà da regolatore degli equilibri locali, sotto lo sguardo vigile delle superpotenze: Stati Uniti, naturalmente; Cina, in prospettiva; ma anche Russia, per quanto riguarda l’Est Europa. In Medio Oriente, questo ruolo è già nelle mani di Israele, con l’Iran come antagonista contenuto e un processo di normalizzazione con l’Arabia Saudita e il Golfo che potrebbe ridefinire completamente le sorti della regione. Resta da vedere, una volta archiviato il pericolo iraniano (quantomeno nel breve termine), come si svilupperà la crescente rivalità tra Israele e la Turchia, paese Nato con evidenti ambizioni di leadership e già molto attivo anche su fronti non strettamente mediorientali (Asia centrale, Africa). Questa sarà, probabilmente, la prossima sfida sistemica a presentarsi alle porte della Casa Bianca, con la grande incognita legata all’eredità politica che i due attuali leader di Tel Aviv e Ankara lasceranno.
In definitiva, sebbene ci saranno ripercussioni nello Stretto di Hormuz con conseguente nervosismo dei mercati, il pericolo Terza Guerra Mondiale non è così vicino come sembra. La transizione da unipolarismo a multipolarismo, dalla quale il mondo non si può sottrarre, richiederà nuove crisi controllate, nuove destabilizzazioni funzionali, nuovi interventi selettivi; tuttavia, alla fine, si farà largo nel caos un nuovo equilibrio globale che scongiurerà il ripetersi delle catastrofi del secolo scorso, lasciando presumibilmente spazio anche un nuovo meccanismo di gestione della deterrenza nucleare, finora affrontata con trattati multilaterali di ampio respiro messi a dura prova dall’inesorabile evolversi della storia.
© RIPRODUZIONE RISERVATA