Mi segnalano, per ragioni legate al mio mestiere e al colore dei miei capelli, di tutto e di più. La curiosità, ovviamente, la fa da padrona: è anche il primo requisito che ho sempre richiesto ai miei giovani collaboratori, insieme a un’accurata ricerca delle fonti.
Va da sé che, nel mare magnum delle notizie, ci sia del buono e del marcio, specie se si diventa schiavi dei social media. Ma capita anche di pescare una trota d’acqua dolce che t’invita a nozze per un pezzo che forse non avresti scritto.
Un collega e amico mi ha inviato la foto di una t-shirt con una stella a cinque punte, decorata con i simboli delle forze politiche che, nel secolo scorso, animarono il fenomeno politico caratterizzante la Prima Repubblica: il Pentapartito.
Avendo vissuto quella stagione in prima persona, in ruoli diversi, mi sono ritrovato immerso nell’iconografia dell’epoca, quando il ‘Che’ campeggiava sulle magliette degli studenti e Rino Gaetano ironizzava su quei simboli di partito che oggi, defunti, rinascono stampati sul cotone delle bancarelle.
Il dileggio, contaminato da un pizzico di nostalgia e ammirazione, mi porta a dire che quelli di allora – e ne ho conosciuti di ogni rango e livello – erano di un’altra stoffa.
Che dire? Dopo i lustri del centrosinistra disegnato da Amintore Fanfani, che era anche pittore, e dopo l’invenzione tutta italiana del compromesso storico, si approdò a una coalizione che aveva come perno la Democrazia Cristiana e il suo asse preferenziale con i socialisti, con giudice a latere Ugo La Malfa detto “Cassandra” per il PRI. A completare il quadro, i socialdemocratici eredi di Giuseppe Saragat e un Partito Liberale che, preso congedo dallo storico leader Giovanni Malagodi, si affidava al pragmatismo di Renato Altissimo e Valerio Zanone.
Quel sistema non fece miracoli – il boom economico era ormai acqua passata – ma rinsaldò quella democrazia incompiuta che, a mio parere, resta ancora la tara del Bel Paese, come lo definì Dante Alighieri nel suo Inferno.
Tranquilli: vi risparmio digressioni storiche e politologiche, anche se la cronaca di quegli anni tornerebbe utile per comprendere il presente.
Cito solo la parola chiave di quelle intese di governo e di potere: mediazione. Grazie all’abilità dei sacerdoti di quella messa cantata che era la politica italiana, essa permetteva di conciliare interessi diversi e persino contrapposti, favorendo lo sviluppo del Paese, la promozione dei diritti civili e la conferma di un atlantismo senza tentennamenti.
Oggi, nel tragico rigurgito bellico, mi pare che prevalgano toni propagandistici e bandiere sventolate da chi non sarebbe degno neppure di reggere quella dei calci d’angolo in un campetto dell’oratorio.
Giulio Andreotti e Bettino Craxi, per esempio, erano dichiaratamente filopalestinesi: Arafat, leader dell’OLP, quando passava da Roma – e ci veniva spesso – prima di salire al Colle trascorreva interi pomeriggi nello studio del Divo Giulio, mentre i dorotei, cioè l’ala conservatrice e moderata della DC, stavano con Israele senza se e senza ma, con l’Edera del PRI a fare da contrappunto.
A proposito, torna alla mente un’illuminante intuizione di Giovanni Spadolini, primo premier laico del Paese, che definì il Pentapartito “un sistema di alleanze, non una somma di sigle”.
Premetto che detesto i paragoni tra epoche e persino le chiacchiere da bar, su chi fosse il migliore nei vari campi dello scibile umano: dallo sport alla letteratura alla scienza, all’arte, alla medicina ( i lecchesi, in tempi ormai lontani, ritenevano che nessuno al mondo usasse il bisturi con la perizia del professor Previtera, al punto da affermare davanti alle situazioni disperate che ‘non le salva più neanche il Previtera’). Non posso non rilevare come, nell’attuale stagione politica, i simboli di partito siano diventati semplici emoticon o fiorellini decorativi accanto al nome del candidato, che sia premier o sindaco.
So che mi aspettate al varco, e piombo volentieri sulla terrazza di casa nostra con vista su primavera 2026. Vorrei vedere i preliminari di una sfida che si annuncia calda e appassionante, ma sinora fatico a cogliere quello sprint necessario per tagliare per primi il traguardo.
Mi garba assai che il maggioritario sia stato scalfito dalla nascita di una terza formazione, ma mi permetto di sollecitare il centrodestra a mettere a frutto la sua proverbiale unità elettorale per guadagnarsi sin d’ora il ruolo che gli spetta.
Non farei un dramma per la mancanza di un candidato sindaco a sei mesi dal voto: la storia lecchese recente ha spesso trovato la figura vincente proprio nelle ultime settimane.
E allora che fare? Rovesciare i termini della questione con la presentazione di un programma concreto, incardinato sui temi più sensibili e capaci di catturare il consenso dei cittadini.
Ciascuno di noi conosce a memoria la scala delle priorità, ma tutto dipende da come le si condisce.
La sicurezza, ad esempio, è l’urgenza condivisa da Rancio a Maggianico, passando per le riottose vie del centro: è certamente la questione più sentita a destra e a manca, ma non basta proclamarla se non si prevedono strumenti di repressione e prevenzione che vadano oltre le pie intenzioni.
E se proprio devono buttare lì un nome, anche provvisorio, suggerirei che accanto a Filippo e Carlo scovassero una donna, magari di nome Elisabetta: così si garantirebbero pure il voto degli ultimi monarchici.
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