Referendum, l’autogol della truppa Landini

Il mio scetticismo sui referendum non è certo verso l’istituto di nobile lignaggio democratico, ma sull’uso che se ne è fatto via via sino a sfociare nell’abuso.

Inoltre, mi permetto un richiamo personale che risale al 1974, anno nel quale fu confermato a larga maggioranza il divorzio. Avevo in quel periodo un incarico di certo peso nella Democrazia cristiana e vissi sulla mia pelle il dissidio fra la posizione del partito, con i famosi eccessi fanfaniani, e la mia personale esperienza di cattolico progressista appartenente a una famiglia larghissima, ma non allargata. Mio padre aveva 15 tra fratelli e sorelle e della indissolubilità del matrimonio, quella comunità fece un caposaldo della vita di coppia. Erano in gioco convinzioni, concezioni dottrinali, principi teologici, esperienze drammatiche e quell’universo schizofrenico che è il microcosmo del genere umano: la logica del caso per caso.

Da lì in poi, aborto compreso, lacerante come nessun altro tema, al nucleare e all’acqua pubblica si è consumata una parabola che talvolta ha rasentato il grottesco.

Come nella scorsa settimana. A qualche giorno di distanza, voglio limitarmi a spunti di riflessione che somigliano molto a un ragionare ad alta voce.

Neanche il tempo di accertare il mancato raggiungimento del quorum - che è come dire che la mucca fa il latte - e già il dibattito del ciarpame nazionale virava, in chiave ortopedica, sulla mancata spallata alla premier Meloni, specie da parte di chi la spalla se l’è lussata.

Ma i quesiti non dovevano rovesciare il tavolo apparecchiato da Matteo Renzi con il Jobs act al centro? Quindi la sinistra che vuole riformare la sinistra. Una partita tra scapoli e ammogliati. Il testo dei quesiti che in chiave referendaria dovrebbe essere nella logica del pane al pane e vino al vino, comprensibile alla casalinga di Voghera, a Tronchetti Provera e al benzinaio sotto casa, al sacrestano e al cardinale è rimasto incomprensibile anche dopo spericolati tentativi di semplificarlo.

Detto che laddove il nostro sistema politico ha in un parlamento che legifera il suo perno, mi rifiuto all’idea che 500mila firme o anche un milione debbano fare da supplenza.

A maggior ragione se il capo ciurma è un sindacalista super targato, in fuga solitaria dalle altre sigle confederali con malcelate ambizioni personali e un ego ipertrofico che sino a qualche ora prima della consultazione vagheggiava di quorum a portata di seggio.

Per me, da sempre, chi non ha il polso del Paese e non annusa il consenso è bene che faccia un altro mestiere. E poi non bastava la piazza piena di San Giovanni per anticipare le urne vuote, come suggeriva il vecchio Pietro Nenni? Possibile che anche i minuti segnali, raccolti nella società, nelle case, nei luoghi di lavoro, nelle scuole, non siano spie di quell’astensionismo che ci sta allineando a Paesi dove vota meno della metà degli aventi diritto? E ancora, senza voler fare le pulci al costo dell’operazione, sennò passi per il moralizzatore che si scandalizza per una spesa democratica, perché affidare a un popolo indistinto la soluzione di questioni che veramente toccano la borsa e la vita dei lavoratori? Tra l’altro, sorrido per non lacrimare, davanti ai leader in sedicesimo del pianeta italiano che si arrogano il potere di indicare come votare e giù una bella risata, su uno o l’altro quesito.

Non sto a ricordare l’invito di Craxi a scegliere la cabina balneare, ma forse a questo punto Maurizio Landini si dovrebbe chiudere in una cabina e prendere atto di un fallimento che va ben oltre la sua persona e chiama in causa i destini dei lavoratori e per qualche verso della politica italiana. Siccome si sa che ambire al quorum è come pretendere che il Bisceglie vinca il campionato di serie A, la “malattia” del referendum gettato come un amo come se i cittadini fossero pesci rossi è di quelle cha vanno curate con la prevenzione, che vanno evitate se chiamano il paziente (in senso etimologico) ad esami che non toccano loro, specie se a menar le danze c’è chi non ha titoli di conoscenza, di studi (non di studio) eppure davanti a qualsiasi microfono sbraita e pontifica.

Non ce l’ho con il Landini in sé, ma con il Landini in me, nel qual caso, idolo dei carrozzieri e incubo di automobilisti e pedoni, pretenderei di correre e vincere a Montecarlo. C’è ora da augurarsi che i partiti nazionali e locali tornino alle ragioni della politica e a capire che nel nostro sistema elettivo, si entra nelle istituzioni a Lecco, a Milano e a Roma per scegliere e decidere e non per far flanella e passerella.

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