Scende in campo un’Europa di lotta

Il discorso sullo Stato dell’Unione, l’atto che delinea le priorità legislative e politiche della Commissione europea, il primo del suo secondo mandato, era il passaggio più difficile per Ursula von der Leyen, che da sei anni guida l’esecutivo di Bruxelles.

La domanda è: ha superato lo stress test, e con lei la cabina di regia dei 27? Parrebbe di sì, fra una serie di 15 applausi e le inevitabili critiche, almeno nel colpo d’ala fatto di propositi costruttivi, piglio combattivo e concetti netti. La frase-guida per un consorzio umano che non si rassegna al peggio può essere questa: «L’Europa è in lotta per un continente unito e in pace. Per un’Europa libera e indipendente. Una lotta per la nostra libertà e la nostra capacità di determinare il nostro destino. Non illudiamoci: questa è una lotta per il nostro futuro».

Pronunciato nel giorno dell’attacco di droni russi sul territorio polacco, Paese Nato, questo concetto dice esplicitamente che difendere pace e libertà significa rafforzare la capacità difensiva dell’Ue e sostenere senza esitazioni l’Ucraina: da qui la decisione di destinare sei miliardi di euro a una nuova alleanza sui droni, perché «l’Europa difenderà ogni centimetro quadrato del suo territorio». Stretta nella morsa di nemici esterni, guastatori interni e l’ex alleato americano in via di divorzio, la baronessa tedesca ha cercato di rafforzare la propria leadership personale, non in discussione ma certamente più debole in questa legislatura, e di correggere la proiezione di una Unione sottomessa alla legge del più forte e troppo remissiva verso Trump, come ha dimostrato “l’estate dell’umiliazione”, con critiche giunte anche dai pesi massimi dell’europeismo classico e per questo più imbarazzanti per i vertici di Bruxelles.

Che l’intesa sui dazi abbia portato stabilità, resta però materia da discutere: proprio ieri in un’intervista al”La Stampa” l’ex eurocommissario Paolo Gentiloni ha dichiarato che «dopo 50 giorni abbiamo scoperto che l’accordo non era ideale e nemmeno la stabilità è garantita. Per farsi ascoltare di più l’Europa deve mostrare i muscoli». Le insufficienze rimangono, pensiamo al deficit di competitività e innovazione: il Piano Draghi di un anno fa è più declamato che praticato, e - secondo studi autorevoli - realizzato solo per l’11%. L’allocuzione di von der Leyen ha sì toccato tutte le urgenze del Vecchio continente, ma il messaggio politico risiede anche nella gerarchia dei punti dell’agenda, dato che il baricentro è stato spostato dalle politiche ambientali (riaffermate ma già ridimensionate rispetto alla centralità del precedente mandato) a quelle della difesa. Terreno dichiarato, peraltro accidentato quando si passa dalla teoria alla pratica per entrare nella competizione fra “burro e cannoni”, e lo si vede a partire dall’Italia, ma ritenuto un cambio di registro necessario nel mondo della forza. Così come è parso indispensabile, benché tardivo dopo i tentennamenti di questi mesi, l’annuncio di misure più severe contro il governo israeliano. Per essere un attore geopolitico, come la presidente aveva promesso a suo tempo, e per conquistare autonomia strategica, serve l’unità delle forze europeiste: l’appello alla coesione non è rituale, bensì esistenziale, la premessa per invertire una traiettoria sfavorevole. La stessa signora Ursula s’è offerta di farsi garante, di costruire ponti: segno che ce n’è davvero bisogno. Prospettiva ineludibile, perché tutto va dalla parte sbagliata. Siamo nella peggiore fase di polarizzazione della storia politica europea. La crisi della Francia, con la piazza parigina che brucia, indica la congiunzione fra populismi di destra e di sinistra e nel mentre mette sotto schiaffo Macron, il «grande elettore» di von der Leyen. La maggioranza che la sostiene (popolari, socialisti, liberali) si guarda in cagnesco e il duro scontro di ieri fra popolari tedeschi e socialisti spagnoli mostra evidenti sfilacciamenti nella «coalizione Ursula», in un Europarlamento in cui al normale confronto si aggiungono le divisioni all’interno delle stesse famiglie politiche e i singoli interessi nazionali.

Chi vuole più Europa sbatte contro i veti e lo scoglio dell’unanimità, mentre la pressione di un sovranismo contagioso aumenta lo scarto fra la necessità di maggiore integrazione politica e le condizioni politiche che impediscono tale evoluzione. Tali contraddizioni finiscono per trasformare la presidente dell’esecutivo nel bersaglio perfetto, il capro espiatorio, in quanto riassume in sé l’immagine e i valori della democrazia europea. Il suo secondo mandato, dopo i consensi ricevuti nel primo, è partito in salita, anche per una gestione centralizzata e personalizzata. È comunque sopravvissuta a una sofferta mozione di sfiducia e probabilmente sarà così anche con quelle nuove previste. E con lo scatto d’orgoglio di ieri, con l’Europa di lotta messa in campo, ha illustrato con chiarezza come e perché occorre difendere uno degli ultimi bastioni rimasti contro le derive autoritarie e imperiali dei nuovi predoni.

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