Sì, no, forse, vedremo. Questo e quello. Qua e là. Le posizioni di Donald Trump sull’Ucraina diventano sempre più erratiche e imprevedibili e lo dimostra anche l’ultimo rimpasto di Governo deciso da Volodymyr Zelensky che, sentendo tutta la difficoltà del rapporto, ha portato in prima linea personalità che hanno esperienza della nuova amministrazione Usa e possono rendere più fluide le relazioni: dalla nuova premier Yulia Sviridenko (che da ministro dell’Economia ha trattato con Scott Bessent, ministro del Tesoro Usa, il famoso accordo sulle terre rare) all’ex ministra per l’Integrazione nella Ue e nella Nato, Olga Stefanishina, designata quale nuova ambasciatrice a Washington. Si ha sempre più la sensazione che la politica di Trump sull’Ucraina non risponda a una strategia concreta per la risoluzione del conflitto o a una reale preoccupazione per le sorti di Kiev. Da un lato, i buoni propositi dell’inizio si sono scontrati con il fatto che la Russia (ora più che mai) difende le ragioni pur perverse della sua invasione, ovvero le famose «esigenze di sicurezza» che, tradotte in politica, significano un accordo complessivo per la sicurezza in Europa. Trump non sa che cosa rispondere al Cremlino e Putin continua a bombardare. Dall’altro, Trump non smette di ripetere che lui «non sta con nessuno» e che se solo potesse sarebbe ben felice di occuparsi d’altro.
Così, quando ha annunciato una presa di posizione dura nei confronti della Russia e di Vladimir Putin, dal quale si era detto «deluso», Trump è sembrato impegnato soprattutto a trovare una risposta alle difficoltà interne. Il subbuglio della base Maga, che vorrebbe la verità sul «caso Epstein» e sospetta insabbiamenti, e il radicalismo dei parlamentari repubblicani, che stavano per approvare il disegno di legge presentato dal senatore Lindsey Graham per imporre dazi del 500% ai Paesi che commerciano gas e petrolio con la Russia. Idea che avrebbe messo in grande imbarazzo la Casa Bianca: bastonare grandi Paesi alleati come l’India o strategici come la Cina e la Turchia sembrava un’idea un po’ pericolosa.
Per disinnescare le difficoltà interne, Trump ha lanciato un penultimatum alla Russia. Non si può chiamare ultimatum una minaccia a scoppio ritardato di 50 giorni, un aiuto militare pagato da altri (la Ue) e assai limitato nella qualità, soprattutto perché limitato quasi solo ad armi difensive (i sistemi antiaerei Patriot) e privo di quei missili a lungo raggio (e dei missili montabili sui caccia F-16) che l’Ucraina chiede da tempo perché sono quelli che, colpendo le basi e le strutture logistiche ben dentro la Russia, le permetterebbero di allentare la pressione sulla propria prima linea. Non pochi, infatti, hanno pensato che quella di Trump fosse quasi una presa in giro. Quei 50 giorni concessi a Putin sono 50 giorni di sofferenza per le truppe e i civili ucraini, ma possono anche essere i giorni che servono a Putin per ottenere certi risultati. Per esempio la conquista della piazzaforte di Pokrovsk, dove giorni fa il Capo di Stato maggiore russo, Valeryj Gerasimov, ha ispezionato i reparti. Scaricare sul conto degli europei la fornitura di armi, ben sapendo che non tutti i Paesi Ue vorranno metter mano al portafogli, sembra quasi voler togliere con una mano ciò che si dà con l’altra. E poi, se l’Ucraina è in una situazione drammatica, come lo stesso Trump ha riconosciuto, che senso ha circoscrivere l’aiuto in armamenti, quando invece servirebbe potenziarlo al massimo? Per attaccare i siti nucleari dell’Iran, gli Usa non hanno esitato a muovere i bombardieri B-52 e a spendere, per quella sola missione, 14 superbombe Gbu-57, circa metà di quelle contenute nei loro arsenali. E per proteggere Israele dai missili iraniani, hanno sparato circa il 20% dei loro missili Thaad, la più potente arma antiaerea di cui dispongono.
Il doppio standard trumpiano nell’assistenza militare tra Ucraina e Stato ebraico è lampante. Il che rivela, ovviamente, le priorità strategiche dell’attuale Casa Bianca, che si fa coinvolgere in Medio Oriente ma vuole lasciare la questione ucraina ai soli europei. Ma anche l’afasia politica di Trump, che spende tante parole ma, alla fin fine, non sa parlare né a Zelensky né a Putin.
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