Urne e rioni, scomparsa la politica dei quartieri

In un mondo che, soprattutto di questi tempi, pare muoversi attraverso strade macroscopiche di mutamenti globali o conflitti potenzialmente a rischio escalation, accade spesso e volentieri che sia l’ordito micro del piano locale a suggerire qualche chiave interpretativa sulle scale più ampie.

E’ il caso, ad esempio, di un piccolo annuncio (cui è poi seguita una ristretta assemblea) che ha percorso le trame social lecchesi nei giorni scorsi. Il Comitato di Chiuso, infatti, realtà apolitica e puramente volontaristica dell’ultimo rione cittadino (almeno a guardare da Nord) ha infatti diramato una richiesta alla pur ridotta popolazione del quartiere: servono due candidati, pronti a mettersi in gioco con la lista che più sia confacente alla loro sensibilità politica (sinistra, destra o centro, non importa) e a correre per farsi eleggere. Motivo? Una volta in Consiglio, portare specificatamente sul tavolo del dibattito e della Giunta le istanze di Chiuso.

Ora, serve una premessa. L’iniziativa arriva da un piccolo concentrato di idee e proattività, il Comitato appunto, tra i più formidabili della città di Lecco. Persone che in tempi non sospetti hanno costruito eventi di ampie proporzioni (la Maratona di 36 ore di calcio) a scopi benefici, che hanno organizzato vere e proprie missioni solidali (come nel 2017 ad Accumoli per i terremotati), che hanno trovato una misura straordinaria tra esigenza di denuncia e senso di responsabilità. Tra i primi a lanciare l’allarme sulla Lecco-Bergamo (quando i papaveri romani sfilavano all’ombra della chiesetta del Beato Serafino a promettere l’inaugurazione dell’arteria entro il 2018), i più uniti e pragmatici a gestire la stagione delle scuole elementari a rischio chiusura (correva l’anno 2016). Posizioni mai preconcette sui problemi legati a cave e viabilità. E poi, quel tocco di sana follia (Giugarock, gli albori del progetto del Palio dei rioni) che non guasta per fare comunità.

Bene, che questa realtà del tutto inserita in una logica di partecipazione, comunità, appartenenza si ponga oggi il problema di avere referenti diretti nella politica (e di doverseli creare dal nulla, perché altrimenti non ne avrebbe) è un fatto sintomatico.

Un tempo si parlava di corpi intermedi, vale a dire tutti quegli organismi (sindacati, partiti, associazioni di categoria e non solo) che riuscivano a gettare un ponte tra l’individuo e lo Stato. Era, in fondo, un modo per sentirsi meno sudditi, meno ricattabili. Non è questa la sede per discettare della frantumazione sociale, dell’individualismo latente, della perdita di credibilità e autorevolezza, o anche solo dello tsunami che è l’apparente relazione particolare che lega oggi i cittadini al leader come i groupies al proprio frontman.

Ciononostante, anche e soprattutto sul piano locale, accadono inezie che sono come lampi improvvisi: illuminano inavvertitamente un pezzo di realtà, costringono gli sguardi a posarsi su un tema che si pensava ormai digerito e sedimentato.

Cosa è diventata la rappresentanza? Cosa ne è rimasto, se un piccolo gruppo di persone attive si pone il problema di individuare direttamente due propri referenti dentro un’assemblea pubblica? Cosa sono diventati i partiti, qual è la loro capacità di presa e di ascolto se nemmeno riescono ad essere loro, gestori e collettori di consenso, ad arrivare a quel gruppo, a quella comunità, a quel rione e garantirne rappresentanza?

C’era un tempo nel quale alle elezioni comunali si ricevevano in mano sia le schede del Consiglio sia quelle dei famosi consigli di zona. Erano palestre straordinarie per giovani politicanti in erba o luoghi di sicuro consenso per veterani locali.

Erano, soprattutto, gruppi di lavoro su temi peculiari dei quartieri e riferimenti sicuri per i cittadini in cerca di risposte. Si è detto che la digitalizzazione li avrebbe degnamente sostituiti e soppiantati. Ma forse, per quanto l’innovazione sia una nobile opportunità di sviluppo, non le si può chiedere di fare anche quella brutta, sporca, necessaria cosa che è la politica. E gli algoritmi non possono diventare un alibi per dribblare l’onere della rappresentanza.

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