Secondo un conteggio dell’agenzia di stampa francese “Afp”, nello scorso luglio la Russia ha lanciato contro l’Ucraina un numero di droni superiore a quello di qualsiasi altro mese dall’inizio della nuova guerra nel febbraio 2022: ben 6.297 a lungo raggio, il 16% in più rispetto a giugno. Un dato in aumento per il terzo mese consecutivo. Ancora a luglio gli invasori hanno lanciato 5.100 bombe teleguidate e 260 missili di vario tipo.
Si può liquidare la notizia come propaganda occidentale ma l’organizzazione non governativa “Save the Children”, che opera a sostegno dell’infanzia nello Stato invaso su larga scala come nella Striscia di Gaza, nei primi sei mesi di quest’anno 373 bambini ucraini sono stati uccisi o feriti, con un aumento di quasi il 40% rispetto allo stesso periodo del 2024. Le stime più attendibili di organizzazioni internazionali, accertano le vittime civili dall’inizio della nuova aggressione russa in almeno 100mila, 70mila le persone che risultano disperse e due milioni (fonte Onu) gli edifici e le infrastrutture civili distrutte o danneggiate.
La ripresa delle comunicazioni fra la Casa Bianca e il Cremlino dopo l’insediamento di Donald Trump fu una buona notizia. Ma il dialogo non è un valore assoluto in sè, dipende dal contenuto e dalle finalità. Il presidente Usa non si è posto come un mediatore imparziale: ha affermato una “par condicio” delle responsabilità della guerra, accentuando quelle dell’Ucraina che dall’indipendenza nel 1991 e fino all’anno dell’aggressione nel 2022 (ma iniziata nel 2014 con l’annessione militare della Crimea a Mosca) non aveva sparato un solo proiettile in territorio russo. Non solo: Trump si è spinto a sostenere che in un futuro «l’Ucraina potrà far parte della Russia». Parole irresponsabili, che alle orecchie di Vladimir Putin sono suonate come un via libera all’escalation di quella che ancora chiama «operazione militare speciale». Infatti paradossalmente (ma non del tutto) l’intensificazione dei bombardamenti è iniziata a seguito del feeling ideologico fra i due presidenti. Il rapporto però si è incrinato quando lo zar non ha accettato la proposta di tregua unilaterale di un mese avanzata dalla Casa Bianca, alla quale invece Kiev ha aderito.
Il “tycoon” che in campagna elettorale aveva promesso di chiudere il conflitto in 24 ore e poi, insediatosi, ha prorogato la scadenza a sei mesi, si è sentito ferito nel suo ego infinito, incompatibile con la sconfitta. Ha posto a Mosca un ultimatum di 50 giorni per chiudere l’aggressione e non far scattare nuove, dolorose sanzioni (in particolare quelle secondarie per evitare triangolazioni di petrolio e merci con Stati alleati e da questi su mercati occidentali). La scadenza è poi stata anticipata al prossimo 8 agosto. Il tragico luglio vissuto dalla popolazione ucraina, sotto l’intensificarsi dei bombardamenti, è la risposta di Putin a quello che ritiene un inaccettabile e umiliante diktat: è il ribadire il peso dei rapporti forza. Per capire fino a che punto il nazionalismo revanscista russo si spinge nei confronti di Kiev e quale è il clima politico a Mosca, è utile leggere anche i media governativi. L’agenzia di stampa statale “Ria Novosti“lo sorso 30 luglio ha pubblicato sul proprio sito internet un commento di Kirill Strelnikov con un titolo agghiacciante: «Non c’è altra scelta: nessuno dovrebbe rimanere in vita in Ucraina». L’altro ieri Putin ha dichiarato che «tutte le delusioni di Trump nei negoziati sono dovute ad aspettative eccessive. La Russia non sta conquistando territori, ma sta riprendendo le proprie terre», le «terre storiche» ucraine secondo il nazionalismo moscovita storico e contemporaneo. Affermazioni alternate ad altre più concilianti, in linea con il metodo negoziale del Cremlino, il “bastone e la carota”: ieri lo zar ha espresso l’auspicio che «i colloqui per una pace stabile e duratura continuino, affrontando il tema nel quadro della sicurezza europea nel suo insieme». Gli obiettivi restano quelli di sempre, senza concessioni: riconoscimento a Mosca del 18% di Ucraina annessa militarmente (seppure abbia il controllo del 70% di quei territori, dove è in corso un processo di russificazione forzata delle popolazioni) e l’impegno scritto di Kiev di non adesione alla Nato, per altro non più all’ordine del giorno dal 2008 (quando l’Alleanza disse no, aggiungendo “in futuro” ma senza dare scadenze) e obbligatoriamente dal 2014 perché lo Statuto della Nato vieta l’ingresso di Stati che hanno regioni occupate militarmente (allora la Crimea nel caso ucraino).
A Kiev realisticamente non si discute più di sovranità ma di integrità territoriale sull’82% di terra non persa, di una pace sicura e definitiva. La guerra purtroppo non è destinata a chiudersi a breve.
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