Premiato Moroni, il suo documentario
conquista il festival

A TorinoRiconoscimento speciale al sondriese. Per “Non ne parliamo più” girato con la francese Khindria. La storia dei soldati algerini harki costretti alla guerra

Ha debuttato con un riconoscimento importante il nuovo documentario del sondriese Vittorio Moroni. “Non ne parliamo più – L’inferno a cui siamo sopravvissuti”, realizzato con la francese Cécile Khindria (già giornalista per France 24), ha ricevuto il Premio speciale della giuria nel concorso Documentari italiani al 40° Torino Film Festival tenutosi nei giorni scorsi.

Ottima annata

Per il regista valtellinese si completa un’annata partiolarmente intesa, con la messa in onda sul canale 9 della serie documentaria “Denise” dedicata alla scomparsa di Denise Pipitone e la presentazione in concorso alla Mostra di Venezia de “L’immensità”, il film di Emanuele Crialese con Penelope Cruz cui ha collaborato come sceneggiatore. Il nuovo lavoro porta alla luce un storia poco nota in Italia e ancora molto divisiva in Francia, quella degli harki, i soldati algerini che combatterono per la Francia durante la guerra per l’indipendenza del loro Paese natale.

Dopo il 1962 molti di loro furono costretti a lasciare le loro case, buona parte attraversò il Mediterraneo, ma non furono mai riconosciuti dai governi francesi. Molti furono trasferiti a Bias, nel dipartimento sud-occidentale di Lot e Garonna, e ospitati, o meglio richiusi, in un campo dalle regole ferree, più simile a quelle di un centro di detenzione che di accoglienza.

Vissero là confinati ai margini della società, dopo aver tagliato i ponti con la terra d’origine, ma conservandola anche nel linguaggio, e senza integrasi Una situazione dolorosa di cui i protagonisti non hanno mai voluto parlare, nascondendo nei silenzi patimenti e vergogna, e cui i due registi riescono accedere a una giovane donna della nuova generazione che vuole sapere di più sul passato familiare. «È un film che ha fatto molta fatica a nascere – ha detto Moroni – Lo avevamo già in testa, ma ci accorgevamo di non aver il diritto emotivo di entrare il quelle storie, fino a quando abbiamo incontrato Sarah, che aveva 30 anni, aveva appena avuto un figlio e voleva sapere di più del nonno harki».

Tema doloroso

Il film, molto intenso e riuscito, segue mantenendo una rispettosa distanza l’indagine di Sarah, rispettando i tempi suoi, dei familiari e degli interlocutori, fin dalla scena iniziale che la vede a colloquio con il padre Rabah che ha sempre difeso con silenzio quei trascorsi terribili.

Un film, che come spesso nei documentari di Moroni (come “Le ferie di Licu”) mostra persone a metà tra due Paesi o culture, costretti a fare i conti con le radici o a compiere scelte delicate. Qui il tema è più doloroso, pesa la lunga negazione ufficiale (anche se Macron nel 2021 ha chiesto scusa a nome del popolo francese), ma la sofferenza è attenuata nel film dalla delicatezza dello sguardo: se il documentario ha bisogno del suo crescendo e delle sue svolte, queste vanno e di pari passo con l’evoluzione dei protagonisti e con la loro disponibilità ad aprirsi. Il titolo, “Non ne parliamo più”, è il punto su cui convergono nipote e nonna prima di scoprire che è ora di riaprire il capitolo.

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