C’è una mummia al cimitero

Esposta al famedio il corpo di un bimbo morto a inizio Ottocento

Lecco

Sembra riposare un po’ spaventato con quella bocca aperta e i capelli biondo rossicci ancora ben visibili. La mummia di un bambino morto a fine 1800, nel 1895 per la precisione, è stata esposta nel famedio del Cimitero Monumentale di Lecco con la targhetta originale, dietro il cuscino funebre: “Esperimento eseguito | presso | l’Ospedale Maggiore di Milano [...] 1895”. Il giovane (probabilmente sui dieci anni), era custodito in un loculo sotterraneo del famedio del cimitero di Lecco (nella foto della Gazzetta di Lecco del 4 settembre 2004), fu esposto nel Museo di Storia Naturale a Palazzo Belgiojoso; ritirato dalla visione al pubblico, fu spostato al Cimitero Monumentale di Lecco in un solaio del famedio e, dal 2005, è ricoverato in uno dei loculi sottostanti quest’ultimo.

Per il rispetto del defunto di cui nessuno sa più né le generalità né le cause di morte, visto che le sue schede anagrafiche erano conservate all’ospedale Maggiore di Milano il cui archivio venne distrutto dai bombardamenti alleati a fine seconda guerra mondiale, non è stato ieri possibile scattare fotografie, ma è incredibile come a 130 anni dall’esperimento Carlo Vercelloni sia riuscito nella sua impresa: costruire una cassa, la cassa Vercelloni appunto, che riuscisse, senza toccare praticamente la salma, a preservarne intatte le fattezze.

Ai suoi tempi il naturalista e scienziato lecchese Carlo Vercelloni ottenne un brevetto di privativa sul suo sistema “per conservare, imbalsamare, mummificare i cadaveri”, rilasciato il 6 novembre 1896 con validità triennale. Ne nacque anche una società apposita, pensando che il sistema avrebbe avuto grande successo: «Erano gli anni – spiega Francesco D’Alessio di Officina Gerenzone e di Archivi di Lecco, organizzatori dell’iniziativa – in cui la Chiesa si opponeva strenuamente alla pratica della cremazione e questo metodo, che non andava a far corrompere il corpo ma neanche lo toccava come altri metodi di imbalsamazione invasivi facevano, sembrava il compromesso ideale tra chi voleva essere inumato normalmente e i parenti che ne pretendevano la miglior conservazione possibile».

Fatto sta che l’esperimento venne ripetuto il 12 gennaio 1897 quando all’Ospedale di Lecco morì il trentaduenne pittore Oreste Reina, orfano di entrambi i genitori. Il 14 gennaio alle ore 14 fu trasportato nella sala mortuaria e deposto “con camicia, mutande e pantaloni, senza preparazione” nella cassa Vercelloni alla presenza di diversi medici lecchesi. Il 26 marzo la bara fu ispezionata e lo stato di conservazione venne descritto ottimo. Così pure nel 1898, a un anno dall’imbalsamazione. Anche il prevosto di Lecco Pietro Galli scelse il metodo Vercelloni per essere sepolto e “conservato”.

E così una decina di notabili dell’epoca. Ma poi la società e il metodo, lentamente, scomparvero dalle pratiche e la società fallì. Vercelloni portò nella tomba, intoccato anch’esso, il segreto della “mummificazione” così ben spiegato ieri dai volontari di Officina Gerenzone che con la serata di venerdì scorso (che ha visto la partecipazione di Dario Piombino Mascali dell’università di Vilnius, massimo esperto delle tombe dei frati Cappuccini di Palermo), ha fatto l’en plein aprendo uno sguardo importante su questa storia dimenticata lecchese ma anche dell’umanità dolente e che non si rassegna all’idea della morte.

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