binario morto
Quel treno
senza tempo

Circa una cinquantina di anni fa, da quella stazione partì un treno senza che nessuno gli avesse dato l’ordine. Erano ancora i tempi in cui un capostazione usciva sul marciapiede con tanto di cappello, paletta e fischietto.

La stazione era piccola, periferica, la linea a binario unico, tranne là dove treni che andavano e venivano si incrociavano per raccogliere o scaricare passeggeri. Quando il capostazione di allora, ancora seduto alla sua scrivania, udì il rumore del treno in partenza restò un momento indeciso sul da fare, come non credesse alle proprie orecchie. Solo al grido di un manovale si precipitò fuori dal suo ufficio, senza cappello e nemmeno paletta. Fece in tempo a vedere gli ultimi due vagoni del convoglio che imbucavano la galleria, sconcertato e indeciso. Ma forse sarebbe meglio dire paralizzato dall’impossibilità di fare qualcosa per impedire il disastro che di lì a poco si sarebbe consumato poiché dalla stazione successiva si era già mosso un altro convoglio che quello inspiegabilmente partito avrebbe dovuto attendere. Come fosse potuta accadere una cosa del genere gli era difficile immaginarlo. Rigido sul marciapiede insieme con il manovale alle sue spalle attese l’inevitabile, lo scontro frontale e tutto ciò che ne sarebbe conseguito.

Era la metà pomeriggio di un giorno di maggio, una canonica primavera, ricca di profumi. Fu proprio il profumo dell’aria che il capostazione notò dopo l’interminabile attesa del rumore e delle grida e di chissà cos’altro lo scontro avrebbe prodotto. Il profumo dell’aria invece, prima ancora di vedere il muso del locomotore dell’altro treno che sbucava dalla galleria come niente fosse, cominciando una frenata che, a rischio di sembrare un abbellimento letterario e scontato, fu stridente. Toccò al manovale scuotere il capostazione dall’incredula immobilità con la quale stava seguendo la scena. Fu invece il conducente del treno appena giunto, affacciandosi al finestrino, a chiedere quanto portasse di ritardo il treno che avrebbero dovuto incrociare lì. Come fare, come dire che invece quel treno era partito senza che nessuno gliene avesse data facoltà ? Che si era infilato in galleria lanciandosi contro quello che invece era sotto i suoi occhi, illeso, quasi sornione nella pacata aria di un profumato pomeriggio di maggio?

Di quel treno, la realtà era quella, si erano perse le tracce, dalla galleria non era mai uscito, svanito insieme con i passeggeri che avrebbe dovuto scaricare un po’ qua e un po’ là. L’inchiesta che seguì al fatto escluse responsabilità da parte del capostazione e men che meno del manovale. Ma, pensandoci bene, a chi si sarebbe dovuta imputare la colpa per la sparizione di un treno che entra in una galleria e non ne esce più? Fu, questo, il principale argomento che occupò il lavoro degli inquirenti e che venne anche sottoposto a tutti coloro che su quel treno avevano figli, mogli, mariti, amici o comunque conoscenti tra quel centinaio, calcolato approssimativamente, di passeggeri che erano spariti insieme col treno.

Alle scomposte proteste dei primi tempi si sostituì poi un’attonita presa di coscienza che attorno al fatto c’era un mistero difficile da scalfire. Venne anche organizzata una visita, tanto inutile quanto macabra, all’interno della galleria opportunamente illuminata, dalla quale i partecipanti uscirono portando con sé un silenzio denso di paure: perché lì dentro, nonostante i fari, avevano percepito la possibilità di non trovare più la strada del ritorno, di restarvi, privi per sempre della luce del giorno. Né la stampa, a parte i giorni immediatamente successivi all’accaduto, dopo vani tentativi di spiegare il fatto, insisté più di tanto. Era un mistero greve di incertezze, rischiava di diffondere malsane inquietudini. Il capostazione venne trasferito altrove, il manovale cambiò mestiere. Furono celebrati funerali privi di corpi.

Circa cinquant’anni dopo quel fatto, un altro capostazione, in quella stessa sede, sta cenando nell’appartamento che l’amministrazione delle ferrovie gli ha destinato. È a tavola con moglie e figlio. È una sera di fine ottobre, ha piovuto per quasi tutta la giornata, ora il cielo è parzialmente sgombro, la temperatura esterna sarebbe ancora gradevole se non fosse per tutta quell’umidità. Devono ancora passare tre treni, due in discesa, uno in salita, prima che il suo turno finisca. Ma per il momento il capostazione può concedersi il piacere di cenare con tranquillità.

Non è più il tempo di palette e fischietto, adesso segnali comandati elettronicamente si assumono l’onere di regolare il traffico e fra un po’ sostituiranno del tutto l’essere umano, condannando le piccole stazioni di periferia al declino e questo capostazione al trasferimento. Per il momento però è ancora lì, sta cenando, ascolta il figlio che lo mette al corrente con entusiasmo e un po’ di confusione di quello che gli hanno insegnato quel giorno, ciò che ha imparato nella lezione di scienze che il professore ha dedicato al tempo spiegando come quello degli orologi non è il tempo vero ma solo un artificio sul quale altre forze possono agire, come ad esempio la forza di gravità.

Su una montagna molto alta il tempo degli orologi corre più veloce, afferma il bambino, cercando senza riuscire di ritrovare la chiarezza che aveva sentito nelle parole del professore. Eppure sino a poco prima gli sembrava di avere le idee ben chiare. Il genitore però finge di non notare l’imbarazzo del figlio, annuisce, in fin dei conti, pensa, cosa può cambiare nella vita di un uomo lo scarto di pochi secondi o anche di un intero minuto?

Il tempo è quello che è, che gli orologi lo misurino o meno, è una specie di strada che a differenza di quella ferrata non ti permette di sapere dove stai andando. Va percorsa per conoscerla fino in fondo. E, a proposito di tempo, mentre la moglie comincia a sparecchiare, il capostazione dice che per lui s’è fatto quello di scendere nel suo ufficio perché il primo degli ultimi tre convogli della giornata arriverà tra poco. Poi, una volta passato quello, il capostazione salirà in casa per dire, sempre a proposito di tempo, che per il ragazzo s’è fatto quello di andare a dormire. I giovani devono riposare un giusto numero di ore.

Quando si alza un po’ di vento che libera del tutto il cielo è quasi mezzanotte. Per quanto non sia particolarmente forte i vetri delle finestra dell’appartamento fremono un po’, una persiana sbatte stancamente, geme anche il ramo di un ligustro che sta nel giardinetto a lato della stazione e che, da tempo, avrebbe dovuto essere tagliato. Passa anche qualche macchina strisciando sull’asfalto ancora umido. Può essere quell’insieme di rumori a illudere che un treno in quel momento stia entrando in stazione. Un’illusione bella e buona perché per altre cinque ore e qualche minuto nessun convoglio deve passare da lì. Cinque ore e quattordici minuti per la precisione visto che proprio in quel momento scatta la mezzanotte e grazie al vento i rintocchi del campanile si sentono con insolita chiarezza. Ma tra una folata e l’altra del vento, quando tacciono i vetri delle finestre e pure la persiana, una lunga frenata sferragliante occupa l’intervallo di silenzio. È una frenata che ormai appartiene solo a certi racconti o a certi film, un rumore d’antiquariato ferroviario. Il sospetto che viene al capostazione è di aver scordato il passaggio o addirittura la sosta di un treno merci. Di tanto in tanto capita. È certo di non avere avuto comunicazioni al proposito. Ma quando nasce un dubbio siffatto è difficile da estirpare e controllare non costa niente, altrimenti non riuscirebbe più a riprendere sonno. Quindi si alza e va alla finestra di cucina. E da lì lo vede.

Prima di ogni altra cosa lo colpisce la presenza di carrozze di terza classe che sono state abolite..., quando ? Almeno cinquant’anni prima, si risponde. Poi, superata la sorpresa per aver notato prima di tutto quel particolare, si rende conto del treno nel suo insieme. Un treno intero, in un ora in cui non ci sono mai stati arrivi o partenze, tranne qualche merci perlopiù in transito. E per di più fermo sul binario morto. Il dubbio che lo assale non è se sta sognando o meno, ma cosa fare. Telefonare, chiamare qualcuno, chiedere aiuto, informazioni. Dalla stazione principale più vicina, stazione di città, dovrebbero sapere qualcosa di quel treno, perché è lì e anche perché nessuno gli ha detto niente. Ma, ecco !, pensa il capostazione. Non è più facile scendere una volata, chiedere direttamente al capotreno o al macchinista cosa ci fanno lì e solo dopo decidere sul da fare ? Anche perché, adesso che lo guarda meglio, quel convoglio, oltre che vecchio, fuori uso, sembra completamente vuoto.

I finestrini sono bui, tracce di viaggiatori, di visi che si affacciano alla fermata, di mani che abbassano i finestrini non c’è nemmeno l’ombra. È un treno d’epoca. Potrebbe essere lì per un giro turistico, per la celebrazione di qualche evento. Comunque, in ogni caso, avrebbero dovuto preavvisarlo del suo arrivo. Starsene alla finestra non risolve niente. Senza fare rumore il capostazione si butta un cappotto sul pigiama e in ciabatte scende con nella mente l’immagine di una pozzanghera in cui si riflette una mezza luna in crescita.

Il capotreno lo vede giusto in tempo. Appena in tempo per scendere dalla motrice e farglisi incontro in quella luminescenza lunare che dà a ogni figura un che di metallico.

« Aspetti», dice a quell’essere in cappotto e pigiama.

Ma il capostazione non obbedisce e gli si fa sotto dopo aver attraversato i binari e aver anche messo un piede, il destro, in una piccola pozza d’acqua raccoltasi tra due traversine.

«Mi dica», sbotta quando gli è di fronte.

Ma il capotreno sembra non aver sentito.

«Lei è il capostazione?», chiede.

E il capostazione conferma bruscamente. Chi altri dovrebbe essere ? Ed è lì perché pretende spiegazioni.

«Dovevo immaginarlo», mormora il capotreno. Immaginare che non si sarebbe svolto tutto nel massimo silenzio. Con quella motrice, quei vagoni antiquati e il loro ridicolo sferragliare!

«Ma cosa sta dicendo?», insiste il capostazione.

«Lei è giovane», risponde il capotreno come se non stesse parlando con lui ma alla luce della luna o a una pozzanghera. Giovane, e lo si capisce dalla freschezza del viso e della voce nonostante l’ora tarda e il sonno da cui è stato strappato. Per quanto giovane però forse aveva sentito qualcosa sulla storia di quel treno partito senza ordine all’incirca cinquant’anni prima.

«Qualcosa, sì», conferma il capostazione.

Non più di tanto. O, se preferisce, quel tanto per capire che si è trattato di un evento incredibile, rimasto senza spiegazione. Più che un mistero, a lui è sempre sembrata una fantasia bella e buona.

«Posso capirla», confessa il capotreno.

Ma non ammetterlo, non concordare, perché quel treno c’è stato veramente.

«Io c’ero», dice.

Io ero su quel treno, aggiunge.

«Quel treno è qui, adesso».

Il capostazione deglutisce e si massaggia gli occhi.

«Più tardi», suggerisce il capotreno intuendo il pensiero del suo interlocutore. Verrà il momento per prendere in considerazione l’ipotesi del sogno. Ma adesso il capostazione deve ascoltare. Perché è finito il viaggio.

« Si chiederà che viaggio», prosegue il capotreno senza bisogno di attendere la domanda.

Il viaggio, quello che aveva iniziato lui, pienamente responsabile di quello che stava facendo, disobbedendo a una regola, un concordato segnale di partenza, rubando un paio di minuti a un orario ben preciso.

«Una disobbedienza che potrebbe sembrare sciocca ma che mi ha premiato, o dovrei dire ci ha premiato, e punito allo stesso tempo».

A quell’ultima parola il capotreno si interrompe e sorride.

«C’è da ridere?», chiede il capostazione.

«Cos’altro mi resta da fare?», ribatte il capotreno.

Disobbedendo a un tempo soggetto a un orologio si è messo, e con lui tutti i passeggeri di quel treno, nelle mani del tempo senza condizioni. Da quella galleria imboccata prima del tempo stabilito non sono mai più usciti in un certo senso, anche se è impensabile pensare che ci siano rimasti per tutti quegli anni.

E allora dove sono stati? E lo stesso capotreno che pone la domanda, non oserebbe farlo il capostazione.

«Non lo so», è la risposta. E gli deve credere. Però ricorda di aver visto di tanto in tanto una luce di luna.

«Tutto lì?», si spinge a chiedere il capostazione.

« Tutto lì», conferma il capotreno. Che poi, quasi se ne meravigliasse, nota il grande orologio della stazione. È bello chiacchierare nelle ore più fonde della notte.

« Ma adesso», dice con una certa urgenza, «il problema è un altro».

Il lungo viaggio inenarrabile è giunto al termine.

«Siamo tornati». Lui e tutti i passeggeri che il treno ha caricato circa cinquant’anni prima, un centinaio circa.

Il capostazione ha un moto di stizza. In che cosa vorrebbe coinvolgerlo il sedicente capotreno che gli sta davanti, la piega del discorso non gli piace per niente.

«Mi ascolti», dice quasi pregando il capotreno. Tornati, ha detto, nel tempo scandito dalle ore, soggetto agli orologi, ma con alle spalle cinquanta anni di vita perduta nel nulla, tranne qualche luce di luna di tanto in tanto.

«È finita», riassume il capotreno.

«Finita cosa?», obietta il capostazione. «Io non capisco».

Il capotreno allarga le braccia sconfortato.

« Sarebbe andato tutto liscio se questa vecchia ferraglia non avesse fatto tanto rumore».

Lui e i suoi passeggeri sarebbero finalmente scesi dal treno e se ne sarebbero andati ciascuno per conto proprio e il giovane capostazione avrebbe continuato a dormire, nessun intoppo.

«Sta di fatto che non è andata così», ribatte il capostazione con una certa veemenza.

«Me ne rendo conto. Ma, cambia qualcosa?», chiede il capotreno.

«Credo che mi toccherà avvisare qualcuno di questo..., questo improvviso ritorno, non crede?», chiede a sua volta il capostazione.

«E se invece fingesse di niente e ci lasciasse fare come avevamo progettato dopo averlo sperato per tutti questi anni ? Scendere e finalmente disperderci».

«Non posso farlo», risponde categorico il capostazione.

«Può eccome invece», ribatte il capotreno.

Deve tenere conto che lui come tutti quelli che attendono su quel treno sono ormai vite vuote, annichilite nella memoria propria e altrui. Di loro ormai tutti, parenti, i figli, gli amici si sono dimenticati. Sono semmai ricordi, ricordi che scenderanno da quel treno per occupare una fotografia o un posto vuoto al cimitero o lo sforzo per ricordare un nome. Nessuno darà fastidio, tranne forse quello di far correre inutilmente persone se il giovane capostazione insisterà nel voler agire.

Il capostazione percepisce un brivido come se si fosse alzata la brezza che annuncia l’alba, ancora lontana invece.

«Ma il treno?», sussulta allora. «Se anche la lasciassi fare, quel treno come potrei spiegarlo?»

«Toccherebbe a lei farlo?», chiede il capotreno.

Fingendo che quel colloquio non ci sia mai stato, spiega, tornando a letto, lasciandoli agire, si potrebbe svegliare, come gli aveva anticipato, con l’impressione di aver sognato. E la sorpresa di vedere quel vecchio treno ormai vuoto sarebbe sua come di tutti quelli che correranno a vederlo.

«Qualcuno certamente tenterà di dare una spiegazione, si tirerà in ballo quella vecchia storia di tanti anni fa. Poi, di fronte alla constatazione di non poterlo fare, oggi come allora, piano piano si lascerà perdere, il mistero che regola senza spiegare certe cose tornerà di moda ma infine tutto cadrà nell’oblio, proprio com’è successo l’altra volta».

Il giovane capostazione non sa che fare.

«Non tocca a lei spiegare niente a nessuno», insiste il capotreno. «E tra l’altro», gli fa notare, «non avrà impicci domani alla ripresa del traffico, nessun intralcio alla linea».

Non per niente si sono fermati sul binario morto.

«Sì, ma...», interloquisce il giovane capostazione.

«Un vecchio treno su un binario morto», sottolinea il capotreno.

Scatenerà curiosità e giochi di bambini. Fino a quando, passata la novità, diventando parte del panorama solito, le erbacce cominceranno a crescergli intorno, la ruggine a mangiarselo, gatti e piccioni ne faranno la loro casa.

«Cosa che accadrà più rapidamente di quanto si possa credere», conclude il capotreno.

La luna è ancora lontana dal tramonto. Il capotreno ha un piede, il destro, freddo, è quello che ha bagnato nella pozzanghera poco prima. Rientra in casa, sperando che sua moglie e il figlio non ne abbiano notato l’assenza.

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