Manifesti anonimi, i riti laici verso il voto

Nel 1993, in un Paese che aveva ancora negli occhi le picconate al muro di Berlino e assisteva invece in prima fila a quelle inferte alla Prima Repubblica dagli avvisi di garanzia, gli italiani si trovarono improvvisamente di fronte una campagna di affissioni del tutto inedita. I manifesti erano pervasi da colori pastello e faccioni di bimbi in salute. E poi c’era quello slogan indecifrabile: “Fozza, Itaia”. Che in un gergo volutamente fanciullesco suonava né più né meno come “Forza, Italia”. Si rincorsero parecchie ipotesi su quali soggetti o interessi si celassero all’ombra di quella trovata mediatica, ma a nessuno riuscì di cavar fuori nulla di certo. Meno di un anno dopo, però, parve chiaro a tutti a cosa (e a chi) dovessero senza dubbio alludere quei manifesti. La più straordinaria televendita politica della storia italiana andava infatti in onda a reti (Mediaset) unificate, con tanto di finta libreria sullo sfondo. La discesa in campo di Berlusconi, l’Italia è il Paese che amo, etcetera etcetera. E il nome del nuovo partito: Forza Italia. Per forza di cose, si disse per mesi e per anni, doveva essere stato il Cav a ideare la campagna geniale dei bambini. E invece no. Anni più tardi, quando ormai la leggenda aveva valicato i limiti dell’oggettiva realtà ed era quindi ininfluente alzare il ditino e fare i pignoli sul tema, venne fuori che la campagna era probabilmente stata ideata da un creativo della Armando Testa per promuovere l’uso stesso dei manifesti murali nella pubblicità. Ma in fondo non importava, perché la coincidenza era troppo ghiotta e la leggenda di gran lunga più suggestiva della realtà.

La ragione? Forse che la politica, molto più che altre discipline, ha da sempre un’affinità elettiva particolare con il sacro oggetto del manifesto, fosse pure anonimo. E qui, proprio sull’anonimo, andiamo a rimestare nel caso nostrano. A gennaio 2024, una mezza dozzina di 6x3 elettorali era comparsa in città. Lo slogan era volutamente provocatorio: #ilmaurogiusto, con riferimento alla possibile sfida tra Mauro Piazza e Mauro Gattinoni per le comunali 2026. Ora che l’appuntamento con le urne dista meno di un anno (molto meno, anche se non tutti se ne sono accorti), riecco gli stessi manifesti anonimi. Stessi colori, stessa misura e nuovo slogan: #ilpiazzagiusto. Perché nel frattempo la Lega ha messo sul piatto della coalizione il nome di Carlo Piazza, braccio destro dell’omonimo Mauro, che verosimilmente sfiderà Filippo Boscagli per la “nomination” di centrodestra verso il 2026.

Resta il fatto che, dietro quell’hashtag in caratteri ocra su campo blu oltremare, c’è un’idea tutto sommato romantica. Che il sacro oggetto manifesto abbia ancora un peso popolare, che lo abbia la vela parcheggiata a bordo strada, e i volantini al mercato, i blocchetti di santini consegnati come fiches vincenti al casinò. E ancora lo spazzolone intriso di colla che spiana la superficie prima dell’attacchinaggio, la nostalgia dei voti conquistati uno ad uno citofonando ai condomini e, perché no, le inserzioni sui giornali. Sono riti laici di un tempo moribondo, ma che prova a stringere i denti e resistere all’assalto dei social e dei clic. O, peggio ancora, del caso e dell’indifferenza.

E, tanto per essere chiari, nemmeno Gattinoni e la sua squadra ignorano il tema. Nel 2020, il suo team di comunicazione aveva messo in campo una delle mosse più notevoli delle recenti campagne elettorali, desaturando l’azzurro e il rosso in tonalità pompeiane e turchesi completamente purificate dalla simbologia politica che le precedeva. Un colpo di genio, considerando l’ampiezza dello spettro politico al quale si rivolgeva.

E poi c’è la bonus track a tema di marketing politico, tanto per completare la carrellata di aneddoti. Come non ricordare il fallimentare esperimento del Pd nazionale, che nel 2015 ha paracadutato su Lecco un team non meglio precisato composto da un paio di astri nascenti e da un guru della campagna di Obama. Il gruppetto si era presentato con l’aria di saperla lunga e di voler spiegare la vita al trinariciuto manipolo dei militanti dem e della stampa locale. Nelle conferenze stampa ogni intervento risuonava dell’epica di un proemio omerico. Le domande che supplicavano dati e concretezza erano maneggiate con mal dissimulata insofferenza. Il team ha avuto anche l’ardire di intestarsi la vittoria lecchese del centrosinistra, ma il modello, così dicevano, andava portato a ben altri livelli. L’anno successivo il gruppo si è sciolto, per evangelizzare separatamente piazze ben più importanti di Lecco, confluendo nei comitati a sostegno di Ignazio Marino e Piero Fassino. Hanno vinto Raggi e Appendino. E il resto è storia, con buona pace degli algoritmi.

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