Per avere stabilità non serve il premierato

Il dibattito sul “premierato” è tornato al centro della scena politica dopo che Giorgia Meloni ha ribadito l’intenzione di portare a termine questa riforma entro la fine del suo mandato.

Il disegno di legge costituzionale, presentato dal governo a novembre 2023, ha ottenuto il primo via libera del Senato il 18 giugno 2024 e prosegue il tortuoso iter che richiede ulteriori passaggi alla Camera, prima in Commissione e poi in aula, dove il testo potrebbe subire modifiche già da più parti annunciate. Successivamente, è necessaria una nuova approvazione da parte delle due Camere, a distanza di almeno tre mesi, con il medesimo contenuto.

Nella seconda votazione il disegno di legge deve ottenere una maggioranza qualificata dei due terzi, molto difficile da realizzare, altrimenti sarà sottoposto a referendum popolare. La riforma comprende anche la modifica del sistema elettorale e il sistema dei senatori a vita, la cui autorevolezza e libertà di giudizio non sembrano riscontrare l’apprezzamento del governo. La posizione estremamente contraria alla riforma espressa da tutti i partiti d’opposizione fa ritenere abbastanza prevedibile il ricorso al referendum popolare, in merito al quale la Premier ha tenuto a dichiarare, a differenza di quanto a suo tempo fece Matteo Renzi, che l’eventuale suo esito negativo non destabilizzerebbe in alcun modo l’incedere governativo.

Entrando nel merito, va osservato che nessun Paese europeo prevede l’elezione diretta del capo di governo, a eccezione di Cipro dove il capo di Stato coincide col capo del governo. In secondo luogo, la riforma proposta comporta cambiamenti di grande portata per il sistema istituzionale italiano, prevedendo una sorta di “democrazia di investitura” non coerente con il principio fondamentale dell’art 1 della Costituzione per il quale la sovranità popolare va esercitata dal popolo e non può essere delegata ad altri. Riguardo alle funzioni del Presidente della Repubblica, Meloni ha assicurato che sarebbero totalmente conservate, ma proprio questo potrebbe essere all’origine di equilibri difficili e precari tra il futuro premier e il Presidente stesso che, con un premier forte di una diretta investitura popolare rischierebbe di essere privato della sua figura “super partes” capace di efficaci e rapidi interventi in caso di gravi crisi istituzionali.

La riforma prevede anche che l’eventuale sfiducia del premier porterebbe allo scioglimento delle Camere e ciò potrebbe indurre i deputati ad essere meno inclini a opporsi al governo temendone le conseguenze. Ancora, la competizione per la carica di premier potrebbe incentivare promesse populistiche e poco sostenibili dal punto di vista economico, ancor più di quanto già avviene, con conseguenze negative per il Paese. Da parte loro, i sostenitori del referendum evidenziano alcuni vantaggi. Il primo è che l’elezione diretta del premier potrebbe incentivare una maggiore partecipazione elettorale, riducendo l’astensionismo che sta caratterizzando da tempo i turni elettorali. Inoltre, con un premier espressione diretta della maggioranza elettorale sarà più difficile per il governo cadere durante la legislatura. Si avranno, così, governi più stabili sul piano politico che riducono anche rischi di instabilità economica producendo impatti positivi sui mercati finanziari e contribuendo ad abbassare il costo del debito pubblico.

Su questa esigenza di dare stabilità ai governi si è s offermata Meloni nell’intervento al Senato del 7 maggio, ribadendo l’importanza del ricorso alla riforma del premierato. Appare poco comprensibile, però, come la nostra premier, che nella sua lunga attività parlamentare ha assistito a tante leggi elettorali fatte su misura, non tenga in alcun conto che l’obiettivo della stabilità possa anche essere efficacemente perseguito facendo ricorso a una legge elettorale, votata a maggioranza in parlamento, che sia in grado di assicurare stabilità ricorrendo a sistemi maggioritari o sistemi misti con un forte premio di maggioranza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA