Referendum giustizia la politica è prudente

Il “precedente Renzi” sui referendum ha fatto scuola. Ora che, con l’approvazione al Senato della riforma sulla separazione delle carriere dei magistrati , si apre la strada per il referendum confermativo, né il centrodestra né l’opposizione vogliono che lo si consideri come un test sul loro consenso elettorale. Brucia troppo quella frase di Renzi («Se perdo il referendum sulla riforma costituzionale me ne vado») perché qualcuno si azzardi a ripetere lo stesso, grossolano errore che fece l’allora presidente del Consiglio.

«Non è un voto né su Meloni né sul governo», mette le mani avanti Maurizio Gasparri. «Non politicizziamo, noi non siamo il partito dei pm» fanno sapere dalla direzione del Pd.

Anche perché i sondaggi dicono oggi che contrari e favorevoli alla riforma che sta realizzando il sogno di Berlusconi, sono quasi pari: 33% pro, 33% contro, il resto indecisi. Dunque, la mano sul fuoco sull’esito nessuno la vuole mettere, né chi la riforma l’ha voluta né chi la combatte. Tant’è che Ignazio La Russa, parlando off the records con colleghi parlamentari, ha confidato: «Forse il gioco non valeva la candela». «Ma valeva un candelabro!» è subito scattata la reazione del Guardasigilli Nordio che la riforma se la intesta in prima persona. Comunque in caso di sconfitta, Meloni non vorrà vedere sui giornali del giorno dopo il titolo: “Governo battuto, premier indebolita”.

Certo la battaglia sarà comunque durissima. Ed entrambi i fronti raccoglieranno le firme per il referendum confermativo, trattandosi di riforma costituzionale: vogliono dimostrare di essere pronti ad accettare il responso degli elettori.

Da una parte, quella del centrodestra, si sosterrà che è ora di finirla con l’uso politico della giustizia, con le inchieste ad orologeria, con le indagini che vanno a finire nel nulla (vedi l’ultima sull’urbanistica a Milano) ma nel frattempo causano danni irrimediabili a persone, famiglie, imprese, e in sostanza basta con lo strapotere delle correnti dei giudici e delle procure che, da Tangentopoli in poi hanno trasformato un avviso di garanzia in una dichiarazione mediatica di colpevolezza.

Dall’altra parte, sinistra e magistrati diranno che con la riforma la destra vuole mettere le procure sotto il controllo del governo, che la manovra sulla giustizia è un altro episodio della «torsione antidemocratica» del governo (come Orban in Ungheria) e che tutto è studiato per salvare i «colletti bianchi» e che a pagare saranno solo i piccoli delinquenti di strada.

I magistrati stanno affilando le armi (il presidente dell’Anm Parodi è l’unico a dire che, in caso di sconfitta, si dimetterà) e sperano che il giustizialismo di M5S e AVS e di organi di stampa collegati li aiuti politicamente: il loro campione in tv sarà Nicola Gratteri, il grintoso Procuratore di Napoli famoso per le maxi inchieste sulla ‘ndrangheta.

Più complesso il discorso del Pd: l’invito a non politicizzare la battaglia che viene dalla segreteria deriva anche dal fatto che una sconfitta sarebbe un’ottima occasione per la minoranza riformista per mettere la segretaria sul banco degli accusati (cosa che avverrà comunque in novembre se le prossime regionali andranno male e il grillino Fico perderà la Campania).

Senza considerare che un gruppo non piccolo dei riformisti democratici condivide la riforma per le stesse ragioni che ieri ha espresso Carlo Calenda in aula.

Si voterà tra la metà di marzo e la metà di aprile. Lo scenario referendario sarà il seguente: battaglia dura senza esclusione di colpi ma prudenza sulle conseguenze politiche, per gli uni e per gli altri.

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