I dazi? «Ricetta sbagliata: pagheremo anche noi le conseguenze»

L’economista lecchese Carlo Secchi, già rettore dell’Università Bocconi ed europarlamentare, spiega l’impatto delle fake news del Presidente Trump sull’economia locale. «Unica salvezza: la qualità»

Lecco

I dazi? «Una ricetta sbagliata che non porta benefici a nessuno». L’economista lecchese Carlo Secchi, già rettore dell’Università Bocconi di Milano ed europarlamentare, smonta con facilità le tesi con le quali il presidente americano Donald Trump ha deciso di imporre misure protezionistiche per far rinascere l’industria americana. Una “fake news” che porterà conseguenze negative oltre Oceano e nel Vecchio continente.

Professor Secchi, perché si torna a parlare di dazi e cosa significano davvero?

«L’introduzione di dazi, come quello del 15% che gli Stati Uniti hanno minacciato di applicare anche sui beni europei, è una misura protezionistica che punta a rendere meno convenienti i prodotti importati, così da favorire il consumo di beni “made in USA”. È un’idea che il presidente Trump ha cavalcato molto, nella convinzione – tutta politica – che i dazi possano riportare l’America ai fasti industriali del passato. Ma è un’illusione: gli economisti di ogni orientamento lo dicono da decenni. Il libero scambio è molto più efficiente per l’uso ottimale delle risorse, mentre il protezionismo alla lunga impoverisce tutti».

Ma allora perché questa strategia? E ha qualche giustificazione economica?

«In teoria, può avere senso solo per Paesi in via di industrializzazione che vogliono proteggere settori fragili e appena nati. È il famoso caso dell’“industria nascente”. Ma non è certo il caso degli Stati Uniti, che hanno già un’economia sviluppata, tecnologica e diversificata. Pensare che basti un dazio per far tornare in vita settori industriali ormai superati è poco realistico. Il vero problema è che la competitività americana è diminuita in alcune aree – anche per colpa dei costi – ma nel frattempo si è spostata su segmenti a elevato contenuto tecnologico, come la Silicon Valley, la difesa, l’aerospazio».

Trump sostiene che l’Europa abbia un surplus commerciale esagerato con gli USA. È così?

«È un’interpretazione molto parziale. Se si guarda solo agli scambi di beni, allora sì, l’Europa esporta più di quanto importi: nel 2024 ha venduto agli Stati Uniti beni per 532,3 miliardi di euro, importandone solo per 334,8 con un avanzo di quasi 197,5 miliardi. Ma se allarghiamo lo sguardo ai servizi, il quadro si ribalta: gli Stati Uniti vendono molti più servizi all’Europa – 482,5 miliardi contro 334,5 – con un surplus americano di circa 148 miliardi. Sommando beni e servizi, il disavanzo reale a sfavore degli USA si riduce molto. E c’è di più: nei servizi ad alto valore aggiunto, come finanza, consulenza, tecnologia digitale, gli Stati Uniti dominano, spesso in condizioni di quasi monopolio. Si pensi, ad esempio, alle Big Four della revisione contabile, tutte americane, cui devono rivolgersi le grandi imprese europee».

Quali potrebbero essere gli effetti concreti per i territori di Lecco e della Valtellina?

«Purtroppo gli effetti rischiano di farsi sentire. Lecco è nota per le sue macchine utensili e per l’automazione industriale, mentre la Valtellina si distingue per l’agroalimentare di qualità, a partire dai suoi vini. Ora, se questi beni diventano più costosi per i clienti americani a causa dei dazi, bisognerà vedere chi pagherà la differenza: il consumatore americano o l’esportatore italiano. Dipende molto da quanto i nostri prodotti siano sostituibili. Se un cliente americano vuole proprio un vino valtellinese di alta qualità, accetterà di pagare un po’ di più. Ma se invece può trovare un’alternativa valida a minor prezzo, magari prodotta in California, allora il produttore italiano dovrà abbassare il prezzo per restare competitivo».

Quindi le conseguenze variano da prodotto a prodotto?

«Esattamente. Prendiamo la moda di lusso: se voglio una borsa Hermès, la compro comunque, anche se costa di più. Ma se parliamo di prodotti agricoli comuni o macchinari standardizzati, dove ci sono tanti concorrenti, allora è il produttore europeo a dover rinunciare a parte del margine per non perdere il cliente. Nel caso delle macchine utensili lecchesi, bisogna distinguere: se sono altamente specializzate, il danno è minore; se invece esistono alternative simili, il rischio di perdere competitività è alto».

Ci sono rischi anche sul fronte occupazionale?

«Sì, qualche preoccupazione è legittima. Se un’azienda perde commesse importanti dagli Stati Uniti, potrebbe ridurre la produzione, e di conseguenza il personale. È uno scenario che può toccare da vicino molti lavoratori del nostro territorio. Le imprese devono quindi interrogarsi su come affrontare questa situazione: assorbire parte dei costi? Cercare nuovi mercati? Migliorare ancora la qualità per rendersi indispensabili?»

Ma allora esiste una via d’uscita?

«La risposta sta proprio lì: nella qualità. È la strada più difficile, ma anche la più solida. Se un prodotto è riconosciuto come eccellenza – che sia un impianto industriale o una bottiglia di vino – ha più possibilità di sopravvivere anche a un dazio. In alternativa, c’è il rischio di dover ridimensionare l’attività, tagliare volumi e occupazione. Ma chi investe sull’innovazione può non solo difendersi, ma anche rafforzarsi».

Dal punto di vista politico, come valuta la reazione dell’Europa?

«Si è parlato molto dell’operato della Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, spesso criticata. Ma non dimentichiamoci che rappresenta 27 Paesi, spesso divisi, spesso intenti a difendere interessi nazionali contrastanti. In quel contesto, chiudere un accordo – anche imperfetto – può essere stato il male minore. L’alternativa sarebbe stata l’incertezza, che è il peggiore dei nemici per chi lavora, investe e produce. Ora serve che l’Europa impari a parlare con una voce sola, magari superando la logica dell’unanimità paralizzante».

Infine, secondo lei, da questa situazione può nascere qualcosa di buono?

«Se davvero spingerà l’Europa a diventare più coesa e consapevole delle proprie potenzialità, allora sì. Questa sfida può essere un’occasione per fare passi avanti su molti fronti, non solo commerciali, ma anche finanziari e strategici. È il momento di decidere se vogliamo restare un insieme di piccoli Stati o diventare finalmente una vera Unione capace di contare. Anche in questo, forse, possiamo imparare qualcosa dalla Svizzera, che il primo agosto celebra la sua nascita da un patto tra tre cantoni. Da lì è nato un Paese che ha saputo mantenersi compatto per secoli. E noi?»

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