
A meno di sorprese shock – sempre possibili nel mondo dalle regole sconvolte in cui siamo ridotti a vivere - il tanto atteso incontro di oggi a Istanbul tra Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin non ci sarà.
Il perché è presto detto: Putin non ci vuole andare in quanto non gli conviene. Se si presentasse nella città turca, il presidente-dittatore della Russia dovrebbe rinnegare almeno due capisaldi della sua linea di gestione della guerra che ha mosso più di tre anni fa all’Ucraina: l’ottenimento della pace alle sue condizioni (ossia, poco meno di una resa del Paese che ha invaso) e il rifiuto della legittimazione di Zelensky come suo interlocutore. Ma c’è un terzo elemento di cui, immersi come siamo nella rosea retorica della pace a portata di mano propagandata da Donald Trump, nessuno parla volentieri: Putin ha già pianificato una campagna militare per la prossima estate, crede nella spallata alla resistenza ucraina e non ha nessuna intenzione di rinunciarvi.
Presentandosi a Istanbul di persona, Putin dovrebbe piegarsi a condizioni imposte dai suoi avversari più determinati: Zelensky e gli europei. Questa è davvero l’ultima cosa che il dittatore è disposto a subire. Tuttavia, un’inattesa pressione occidentale, in queste settimane, ha messo il Cremlino con le spalle al muro. Ucraina, Ue e Casa Bianca hanno cominciato a pretendere una prova della volontà russa di arrivare a una pace vera e da qui era derivata la loro richiesta di un cessate il fuoco di 30 giorni: esattamente ciò che Putin, intenzionato a proseguire la guerra fingendo di voler parlare di pace, non voleva. Dopo aver reagito con toni irritati (“gli ultimatum alla Russia sono inaccettabili, chi vuole punirci è un deficiente”), Putin ha proposto un incontro diretto in Turchia tra le delegazioni russa e ucraina, sicuro che avrebbe incontrato un rifiuto. Invece Zelensky ha detto di sì, e ha calato l’asso: Putin, ha detto, deve venire a Istanbul di persona, altrimenti significherà che della pace non gli importa niente. Trump ha più o meno sottoscritto.
A questo punto, Putin è in difficoltà seria. Le sue tattiche dilatorie per continuare la guerra e non dover rinunciare a imporre una pace ingiusta non sono più possibili senza pagare pegno. Dovrà scegliere: presentarsi a Istanbul (con ciò cedendo alle pressioni degli europei che hanno già preparato in caso contrario un pacchetto di sanzioni veramente duro per la Russia) oppure non farlo per non dover fermare le armi e allo stesso tempo rifiutarsi di accordare a Zelensky lo status di suo eguale.
La cosa più probabile è che Putin accampi scuse personali e cerchi di inviare solo una delegazione a Istanbul per guadagnare ancora tempo, contando sull’indulgenza di Trump. Dall’Europa, però, non ne otterrà nessuna. Sì, la tanto vituperata Europa, sempre dipinta dai suoi detrattori come una banda di smidollati interessati solo al potere e a imporre ai cittadini le misure delle zucchine da comprare al mercato, è invece pronta a passare ai fatti con Putin. Il diciassettesimo pacchetto di sanzioni concordato a Bruxelles mette nel mirino i punti forti della strategia di guerra russa: saranno impedite nei loro movimenti quasi 200 navi della cosiddetta “flotta ombra” di petroliere che aggirano le sanzioni imposte dal G7 per trasportare in mezzo mondo il greggio russo, bersagliate 30 compagnie che consentono commerci illegali con Mosca, oltre a 75 tra entità e individui collegati al potente complesso militare-industriale russo. Sono previste anche misure per contrastare la guerra ibrida che Putin ha da tempo dichiarato all’Europa: porre le basi per fermare non solo la sua guerra di propaganda, ma anche navi e soggetti vari coinvolti nel sabotaggio di cavi sottomarini, aeroporti e server. E infine saranno sanzionati 20 tra giudici e procuratori che hanno reso possibili le condanne politicamente motivate di oppositori di Putin come Aleksei Navalny e Vladimir Kara-Murza.
Questo – oltre a una decisa linea di riarmo difensivo - hanno deciso, insieme all’Ucraina, i Paesi guida dell’Europa attuale. Francia, Germania, Regno Unito e Polonia ci mettono la faccia, mentre l’Italia sceglie invece una posizione più defilata. Si potrebbe anche concludere che questa è un’altra storia. Invece no: è la solita, purtroppo. La solita “furbissima” Italietta.
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