Il vescovo Barbetta insieme a Prevost in Perù: «La sua è la timidezza degli intelligenti»

Intervista al vescovo ausiliare della diocesi peruviana di Huarì, originario di Berbenno di Valtellina

Sondrio

È tornato in Italia (anche) per incontrare il cardinale Robert Francis Prevost, prefetto del Dicastero per i vescovi: l’avrebbe dovuto vedere a Roma, al termine del Conclave. Lo Spirito Santo, però, ha cambiato tutti i piani. Ed è così che il presule che aveva conosciuto in Perù nei primi anni di suo episcopato ora si chiama Leone XIV. Anzi, Papa Leone XIV. Manco a dirlo, giovedì sera grande è stato lo stupore nel cuore di monsignor Giorgio Barbetta, vescovo ausiliare della Diocesi peruviana di Huarì, originario di Berbenno di Valtellina, nell’apprendere chi è stato eletto quale 267esimo Santo Padre. Nato il 1° settembre 1971 e ordinato prete il 20 settembre 1998, Barbetta fin da giovane rimase affascinato dal carisma dell’Operazione Mato Grosso, fondata in America Latina dal suo compaesano padre Ugo De Censi. Dopo la formazione nel Pontificio seminario “Pio XI” di Assisi e alcune esperienze pastorali nella diocesi di Gubbio, nel 2001 partì come “fidei donum” per il Perù, in terra di missione, a servizio della diocesi di Huarì: qui fu anche rettore del Seminario. «Robert Francis Prevost - racconta al nostro quotidiano - fu tra le prime persone da me incontrate nel dicembre 2019, quando sono stato nominato vescovo. E poi partecipò alla mia ordinazione episcopale nella cattedrale di Huarì».

Vescovo Giorgio, come ha vissuto l’annuncio dell’elezione del nuovo Pontefice? «Esultanza, ma anche tremore per lui. Mi sono messo nei suoi panni, ho visto la sincera commozione. Ho immaginato i sentimenti nel suo cuore in quel momento: è stato chiamato a fare la volontà di Dio, a diventare ponte tra terra e cielo».

“La pace sia con tutti voi” sono state le sue prime parole. Un messaggio chiaro. «Mi ripeto: in quel momento è riuscito a mettere insieme la terra e il cielo. Da una parte, c’è questo mondo che ha tanto bisogno di pace. Dall’altra, c’è una pace che va cercata e va trovata nel profondo».

E poi l’appello forte all’amore. «”Dio ci vuole bene, Dio vi ama tutti, e il male non prevarrà!”, ha detto il Papa nella sua prima benedizione. Che bello quel “tutti” che ha scelto di pronunciare: si ricollega bene alle parole di Francesco durante l’ultima Gmg, quando parlò della «Chiesa di tutti, tutti, tutti!», ripetendo tre volte l’espressione per rafforzare il concetto. Peraltro, si ricollega bene anche al suo motto, “In Illo uno unum”: nel Cristo unico davvero diventiamo tutti una sola cosa. Sarà questa la sfida principale che attende il nuovo Pontefice: costruire l’unità nella Chiesa. In una Chiesa che, purtroppo, rischia di incappare in una divisione, una polarizzazione: lo abbiamo visto negli ultimi giorni, con l’eterno dibattito tra candidati “conservatori” e “progressisti”. Ma l’unità si trova solo cercando Dio: è lui l’unica fonte, è lui l’unica speranza.

Un compito non facile, insomma, aspetta il nuovo Papa. «Vero, ma sono sicuro che sarà all’altezza di questo incarico. L’unità porta alla pace: chi cerca Dio non resta deluso e trova l’unità e la pace».

Vescovo, lei ha conosciuto da vicino Leone XIV in tempi - potremmo dire così - non sospetti. Che persona è? «Di monsignor Prevost, poi arcivescovo e cardinale Prevost e, ora, Papa Leone XIV, posso dire anzitutto che è una persona profonda e timida. Ma, si badi bene, questo per me è un valore: la sua è la timidezza degli intelligenti. Qualcuno ha detto di lui che è un uomo mite, ma all’occorrenza deciso. Appunto, però, io parlerei piuttosto di una timidezza da cui scaturiscono la forza e la decisione. Sono convinto che il suo carattere potrà aiutarlo nella ricerca di pace che ha proclamato».

Si ricorda ancora il vostro primo incontro? «Ho conosciuto l’allora vescovo Prevost quando sono stato nominato vescovo, alla fine del 2019. Raggiunsi la Conferenza episcopale del Perù e lui fu tra le prime persone che conobbi: si fece avanti per salutarmi, per dare ai nuovi nominati preziosi consigli che ancora oggi porto nel cuore. Poi non mancò alla mia ordinazione episcopale a Huarì, insieme a una quindicina di vescovi. Cinque anni fa mai avrei pensato che, un giorno, che sarebbe diventato Papa. E forse nemmeno cardinale, se vogliamo ben vedere».

L’ha visto ancora di recente? «Lo scorso anno mi accolse alla Congregazione dei vescovi, della quale ricopriva l’incarico di prefetto. E proprio in questi giorni avrei dovuto incontrarlo a Roma: in occasione della morte di Papa Francesco gli ho inviato un messaggio, raccontandogli che sarei rientrato di lì a breve in Italia. Eravamo d’accordo che ci saremmo sentiti dopo il Conclave. Ora non so bene come farò. Ma non dispero: mai dire mai...».

Nel suo primo saluto, il nuovo Pontefice ha voluto salutare i fedeli della Diocesi di Chiclayo. Un gesto molto tenero. Qual è l’identità della Chiesa peruviana? «In Perù i cattolici rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione. Basti pensare che il Papa, quando venne in visita qualche anno fa, rimase profondamente colpito dall’accoglienza che gli fu riservata: la gente lo acclamava nelle strade. Si tratta, insomma, di una nazione profondamente cattolica, di una Chiesa di maggioranza. Non certo del “resto d’Israele”, per usare un’espressione biblica. Attenzione, però: anche qui seppur a livelli diversi rispetto al resto del mondo, Europa in primis - si sta registrando un cambiamento epocale, per usare un’espressione cara a Francesco: la modernità porta i giovani da un’altra parte, lontani da Dio. Qualcuno se ne sta accorgendo, qualcun altro fa un po’ più fatica. I vescovi, per fortuna, lo stanno notando: la nostra Conferenza episcopale - che negli ultimi anni si è ringiovanita - si riunisce due volte all’anno e discute anche di questo. Davvero, il fatto di essere ancora una maggioranza non deve indurci a gridare vittoria: dobbiamo essere attenti a ciò che sta succedendo, preoccupandoci delle generazioni future, di chi verrà dopo di noi».

E, mi permetta, la passione per l’educazione e la cura dei giovani non può che riguardare da vicino lei, che è “figlio” di padre Ugo De Censi. «Sì, è questa da sempre la missione dell’Operazione Mato Grosso: stare in mezzo ai giovani per cercare - con loro e per loro - la strada. Tra l’altro, il nuovo Papa ha conosciuto in Perù padre Ugo. Così come ha incontrato in alcune occasioni i ragazzi del Mato Grosso: ne rimase incuriosito, affascinato».

Davanti a Leone XIV ora c’è una pagina bianca, tutta da scrivere. E lo stesso si può dire per noi, per la Chiesa intera... «Al di là dell’elezione, momento in cui tutti hanno giustamente alzato le antenne, sarebbe importante custodire sempre questo interesse nei confronti del Papa, da sostenere e accompagnare con la nostra preghiera. È chiamato a un compito importante: guidare la Chiesa, sostenerla, confermarla nella fede. Non è facile, in un momento storico in cui Dio è scomparso dall’orizzonte di molti. Ma sono sicuro che, sostenuto dallo Spirito e dalla preghiera di tutti, ce la farà».

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