Violenza digitale: il gruppo “Mia moglie” e quelle analogie con il “Catalogo delle single di Lecco”

Il gruppo Facebook “Mia moglie”, con 32mila iscritti, condivideva foto intime delle consorti senza consenso, corredate da commenti sessisti. La Polizia postale lo ha rimosso, ma il caso ricorda da vicino il “Catalogo delle donne single di Lecco” del 2017. Il commento dell’avvocato Marisa Marraffino

Lecco

Condividevano su Facebook foto intime delle proprie consorti, spesso scattate e pubblicate senza consenso, accompagnate da commenti sessisti e denigratori. Erano trentaduemila gli uomini iscritti al gruppo “Mia moglie”, ora rimosso dopo l’intervento della Polizia postale. Un caso che ricorda da vicino quello del “catalogo delle donne single di Lecco”, l’ebook contenente 1200 profili di lecchesi, pubblicato nel 2017, il cui autore fu poi condannato a un anno e mezzo di reclusione.

«Il caso del gruppo Facebook “Mia Moglie” presenta diverse analogie con quello del Catalogo di Lecco: innanzitutto perché si tratta di un attacco massivo alla dignità della donna e poi perché, ancora una volta, purtroppo, si concretizza in una oggettivizzazione del corpo femminile - sottolinea l’avvocato Marisa Marraffino, legale di parte civile nel processo sul catalogo delle donne single, ed esperta in reati informatici, privacy e diritti digitali. - I reati, però, in questo caso sono diversi: si va da quello di interferenze illecite nella vita privata fino a quello di condivisione non consensuale di contenuti sessualmente espliciti, il cosiddetto revenge porn. A ciò può aggiungersi anche la diffamazione aggravata, per chi avesse inserito commenti dispregiativi ai contenuti pubblicati. Anche nel caso del catalogo di Lecco, infatti, il suo autore fu condannato per il reato di diffamazione aggravata e per quello di trattamento illecito dei dati personali».

Il reato di revenge porn può configurarsi anche con la condivisione di contenuti in biancheria intima: sul punto la Cassazione si è espressa più volte, evidenzia l’avvocato Marraffino, che richiama l’importanza per le vittime di denunciare e di farlo velocemente, nonostante la legge permetta di farlo entro sei mesi, anche per fermare la diffusione dei contenuti su altre piattaforme. «Esattamente come nel caso di Lecco, anche qui il fattore decisivo è il tempismo: la querela permette al pubblico ministero di chiedere al giudice per le indagini preliminari il sequestro preventivo, cioè l’oscuramento dei contenuti. La rapidità è fondamentale, perché agevola le indagini della polizia e rende più probabile il blocco immediato della diffusione», spiega l’esperta.

«La vicenda lecchese insegna molto: ricordo bene che, all’inizio, anche le donne coinvolte nel Catalogo avevano paura di denunciare, temendo ritorsioni o la visibilità della vicenda. Durante il processo, però, maturò gradualmente una consapevolezza dei propri diritti che portò all’affermazione di un principio giuridico importante. Fu così anche impedito che il Catalogo venisse diffuso in tutte le province italiane, come invece era nelle intenzioni originarie dell’autore».

Una lezione che resta attuale: «Portare simili abusi all’attenzione delle autorità competenti è l’unico modo per cambiare le cose – conclude l’avvocato Marisa Marraffino - È l’insegnamento più importante da consegnare alle future generazioni. Dal punto di vista legale, il mio consiglio è sicuramente quello di querelare per i fatti emersi nel gruppo. Ma la questione ha anche una dimensione sociale, troppo spesso le donne sono ancora vittime di simili violenze: è necessario un cambiamento culturale che impedisca in futuro il ripetersi di fatti analoghi».

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